Legalità ed accoglienza in una società multiculturale

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Parlare di accoglienza e d’incontro tra culture diverse significa affrontare un tema che evoca preoccupazioni, paure, resistenze (a volte pregiudiziali, a volte invece fondate su problemi reali).

Queste resistenze sono quasi sempre legate al problema della insicurezza che deriverebbe dai nuovi grandi flussi migratori che, a partire dai primi anni Novanta, hanno interessato l’Europa.

Sappiamo bene che queste paure sono state evocate e sventolate come un vessillo da soggetti politici, che, a metà degli anni Novanta, hanno avuto la capacità di captare le inquietudini diffuse soprattutto tra i soggetti deboli che vivono nei quartieri più poveri e maggiormente investiti dal fenomeno migratorio. Ma poi, a queste paure, sono state offerte soltanto ricette illusorie. Ricette che non solo non hanno risolto il problema ma hanno negato diritti a chi invece li avrebbe meritati.

Penso infatti che ciascuno di voi conosca il calvario che deve affrontare chi voglia assumere, regolarmente, un cittadino straniero (che venga, ad esempio, nelle nostre case a svolgere le funzioni di badante). Chi ha questa esperienza sa bene che la normativa vigente in materia di ingressi per ricerca di lavoro – fondata sulla finzione erronea che offerta e domanda di lavoro si incontrano all’estero anziché nel luogo in cui il lavoro si deve svolgere – è un meccanismo destinato inevitabilmente a creare irregolarità (soprattutto in una fase in cui, da più di tre anni, il Governo non emana “decreti flussi”). Perché chi ha bisogno di assumere un lavoratore, si rivolge a chi già si trova in Italia: a una persona che già conosce e di cui si fida, che ha già dimostrato di saper lavorare onestamente ma, spesso, non ha il permesso di soggiorno. Questo meccanismo inesorabilmente crea illegalità: spingendo chi cerca lavoro ad entrare o rimanere clandestinamente in Italia, a lavorare in modo onesto ma formalmente irregolare. Per questo, l’irregolarità (quella che giornalisticamente viene chiamata clandestinità) è un fenomeno di massa. Fingere di voler contrastare questo fenomeno di massa con lo strumento del processo penale è pura illusione. Significa, appunto, sventolare un vessillo ideologico. Indicare, come ricetta, una strada che, oltre ad essere impraticabile, è anche iniqua. Perché, in questo modo, coinvolgendo in un processo penale il lavoratore onesto ancorché “irregolare” – che ha cercato in tutti i modi di “regolarizzarsi”, senza riuscirci – lo si schiaccia crudelmente sullo stesso piano di uno spacciatore o di un rapinatore. E’ questo appiattimento di tutti (la badante e il rapinatore) sull’immagine demonizzante della “clandestinità” l’aspetto più feroce della nostra legislazione. Non essere in grado di superare questa legislazione e queste regole così farraginose – giustificandosi col dire “l’opinione pubblica oggi non capirebbe” – è segno di grande debolezza politica e di incapacità di leadership.  Pensiamo alla nostra storia, alla storia d’Europa: quando, sul finire degli anni ’40, leader come Adenauer, Schuman, De Gasperi e Spinelli cominciarono a coltivare il progetto di una Europa unita, avevano, dietro di loro, popoli che avevano conosciuto la guerra, i bombardamenti, il massacro reciproco di milioni di persone. Ma non dissero: “non è ancora il momento”. Colsero il terrore che la guerra aveva seminato e lo trasformarono in ripudio della guerra, in ricerca di un nuovo incontro tra popoli.  Tornando al tema della sicurezza legata all’immigrazione, io penso che le élites culturali e politiche europee abbiano capito troppo in ritardo che le paure dei ceti più deboli – gonfiate e strumentalizzate dagli “impresari della paura” – si fondavano su dati reali.

In questa mancata comprensione hanno avuto un ruolo importante le statistiche. Perché le statistiche ci dicevano che le campagne sulla insicurezza urbana enfatizzavano un fenomeno tutto sommato modesto. Ci dicevano che, a partire dagli anni Novanta, erano diminuiti i reati più gravi, come gli omicidi e i sequestri di persona e persino le rapine. Ma le cifre ci rappresentavano una realtà media, senza dislivelli e sfumature. E invece l’esperienza ci ha insegnato che la criminalità urbana si sviluppa, nelle nostre città, a macchia di leopardo: di fianco a quartieri assolutamente tranquilli troviamo, magari a poche centinaia di metri, zone (spesso assai circoscritte) in cui la vita è diventata impossibile. Terre di nessuno, sovente abbandonate dalla stessa polizia. Le statistiche appiattivano questi picchi così diversi; e il fenomeno criminale diventava illeggibile nella reale concretezza della sua dimensione umana. E’ così accaduto che, per un intero decennio, le élites europee abbiano sottovalutato il problema della criminalità connessa all’immigrazione: negandone l’esistenza; parlando di “insicurezza immaginaria”; tollerando zone di impunità per la delinquenza urbana; dando alla criminalità un’interpretazione esclusivamente sociologica (tutti i migranti sono “dannati della terra” e vanno giustificati qualunque cosa facciano).

Intendiamoci: la nostra sottovalutazione era la conseguenza distorta di preoccupazioni giuste. La principale delle quali è quella di non cadere nella illusione che ogni fenomeno di devianza o di conflitto sociale possa essere governato e affrontato soltanto con lo strumento penale: visto come una spada che interviene su nodi aggrovigliati, tagliandoli di netto, anziché  dipanarli, scioglierli con pazienza e intelligenza. E, dunque, la convinzione che, di fronte a fenomeni sociali complessi ed imponenti, una democrazia moderna debba mettere in campo tanti diversi strumenti, tante medicine, tante cure; rimanendo il ricorso al giudiziario l’extrema ratio; l’ultima cui ricorrere: con parsimonia, immediatezza e mitezza insieme, proprio per renderla più efficace, secondo l’insegnamento di Beccaria.

Ma questa sacrosanta preoccupazione ci ha portato, in definitiva, a negare che esistessero peculiarità di una criminalità di strada legata a frange minoritarie ma molto vistose del fenomeno migratorio.

Oggi invece sappiamo che non negare questi fenomeni ma saperli affrontare e garantire sicurezza è questione indissolubilmente connessa alla questione dell’accoglienza.

Garantire maggiore sicurezza significa creare le condizioni, le fondamenta, i pilastri per una politica di ampia inclusione.

Quando parlo di sottovalutazioni del problema della sicurezza, parlo soprattutto del passato. Negli anni seguenti c’è stato un cambiamento di segno. A volte eccessivo. Come nell’oscillazione di un pendolo, ci sono state anche reazioni scomposte contro ogni tipo di irregolarità. Dopo esser stati deboli con i prevaricatori, abbiamo spaventato i deboli e i timorosi della legge. Per dirla con una battuta: non abbiamo contrastato i criminali incalliti e poi ce la siamo presa con i lavavetri.

Ma è bene avere in mente quelle ormai antiche sottovalutazioni perché esse, come una bomba a effetto ritardato, hanno sviluppato le loro conseguenze ad anni di distanza. E’ bene averle presenti, in una fase storica in cui, di fronte a nuovi imponenti flussi migratori verso l’Europa, negli interstizi di una poderosa opera di salvataggio e di assistenza alla vita di centinaia di migliaia di persone (un’opera per cui l’Italia può essere fiera verso il mondo), avvertiamo un brulicare di attività delinquenziali antiche e nuove (quali quelle, più volte rilevate negli ultimi mesi, che tendono a sfruttare i C.A.S. come base di reclutamento per giovani donne da avviare alla prostituzione). Individuare e saper leggere queste attività, impedire che esse inquinino gli aiuti umanitari, separare il grano dal loglio, è la sfida di questo periodo. Ancora una volta è uno dei presupposti per dare fiato, consenso sociale e gambe robuste a generose politiche di accoglienza verso nuovi popoli ed alla costruzione di una comune cultura dei diritti e dei doveri. Che è il portato più positivo di secoli di storia della nostra Europa.

Paolo Borgna

Magistrato Procura della Repubblica di Torino

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