L’ Africa gira le spalle alla Corte penale internazionale

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Tira aria di bufera all’Aja, la sede della Corte penale internazionale (CPI), visto che da alcuni mesi a questa parte si fa sempre più insistente l’insofferenza di alcuni Paesi membri africani nei confronti di quel Tribunale che ha giurisdizione su genocidi, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

La voglia di girare le spalle alla Corte è stata annunciata in primis, qualche tempo fa, dal Sudafrica, seguito poi dal Burundi e ora anche dal Gambia, creando un’inquietante prospettiva di reazione a catena su altri Paesi africani.

Non è una prospettiva rassicurante, soprattutto se si va a guardare con attenzione ai regimi e ai governi che dirigono i Paesi che vorrebbero interrompere la loro adesione alla Corte, lasciando senza sponde e senza condanne le derive autoritarie e la negazione del rispetto dei diritti dell’uomo e aprendo la strada ad impunità e immunità.

La Corte penale internazionale è nata ufficialmente nel 2002, all’indomani della ratifica, da parte di 123 Paesi, di cui 34 africani, dello Statuto di Roma, che ne prevedeva l’istituzione. L’Italia e buona parte dei Paesi europei fanno parte della Corte penale internazionale, mentre non vi appartengono Stati come la Cina, l’India e l’Indonesia. Gli Stati Uniti, come la Russia e diversi altri Stati, hanno sottoscritto lo Statuto di costituzione, ma non lo hanno ratificato.

La Corte non sostituisce le giurisdizioni nazionali, bensì è complementare: interviene soltanto se le autorità nazionali competenti per il perseguimento penale non vogliono o non possono perseguire i crimini commessi sul loro territorio o da loro concittadini. Una situazione che, secondo una recente statistica, rivela l’incapacità o la non volontà giudiziaria dei responsabili politici di molti Paesi africani, mentre per le popolazioni vittime della mancanza di uno stato di diritto, la Corte rappresenta l’ultimo e l’unico approdo per una prospettiva di giustizia.

Gli argomenti invocati dagli Stati africani per uscire dalla Corte sono soprattutto accuse di discriminazione nei confronti dell’Africa, sottolineando il fatto che la maggior parte delle inchieste in corso (oggi nove su dieci) riguardano Paesi di quel Continente: la Repubblica Democratica del Congo, l’Uganda, il Centrafrica, il Sudan, il Kenya, la Libia, la Costa d’Avorio e il Mali. Cosa non del tutto esatta, visto che sono in corso esami preliminari anche in Afghanistan, in Colombia, in Palestina, in Ucraina e sull’intervento militare britannico in Iraq. Ma i Paesi africani accusano la Corte anche per l’indifferenza e la decisione a non perseguire i Paesi dell’Unione europea per la morte di numerosi migranti africani nel Mediterraneo.

L’uscita dalla CPI dei Paesi africani è tuttavia, in prospettiva, comprensibilmente molto inquietante e non poche sono le organizzazioni della società civile che sostengono, malgrado le sue debolezze e le sue imperfezioni, la Corte, ritenendola uno strumento unico per garantire giustizia alle vittime di violazione dei diritti umani e per evitare l’impunità a chi si macchia di crimini contro l’umanità. Ed è soprattutto inquietante dal momento che, ora più che mai, l’instabilità politica è in forte crescita in tutto il Continente, da Nord a Sud, da Est a Ovest.

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