Dopo le non troppo rosee previsioni di primavera giunte da Bruxelles per l’economia italiana, è adesso la volta del giudizio della Commissione europea sulla legge di stabilità 2016, accompagnata dalle raccomandazioni di rito.
Le previsioni annunciate avevano rivisto al ribasso la stima della crescita fatta dal governo italiano per quest’anno, riportandola a un modesto 1,1%, con la prospettiva che possa salire all’1,3% l’anno prossimo. Va meglio l’andamento del rapporto deficit/Pil che scenderà quest’anno a -2,4% per ridursi nel 2017 a -1,9%. Dovrebbe scendere in Italia anche il tasso di disoccupazione, passando dall’11,4% di quest’anno all’11,2% l’anno prossimo.
Fin qui un quadro non brillante ma, a voler essere ottimisti, già un po’ più incoraggiante rispetto a un recente passato. Ma fermarsi a questi dati si rischia di fare i conti senza l’oste, che da Bruxelles i conti li fa fino all’ultima riga e manda a dire all’Italia che è lontana dall’obiettivo della riduzione del debito pubblico, congelato quest’anno allo stesso livello dell’anno scorso: si era assestato al 132,7% sul Pil e lì è rimasto quest’anno, con la previsione di una modesta riduzione l’anno prossimo quando dovrebbe scendere al 131,8%. Se questo avverrà, si tratterà di un progresso significativo, anche se siamo ancora molto lontani da quell’eroico 60% – tendenziale, mise le mani avanti l’Italia – convenuto con quel Patto di stabilità e crescita a cui ci siamo impiccati.
Tutti questa raffica di numeri per capire le valutazioni e le raccomandazioni giunte all’Italia questa settimana con due tonalità diverse: una più accomodante per la valutazione del rapporto deficit/Pil e una più severa a proposito della montagna di debito pubblico che schiaccia l’Italia e che fa paura all’Unione Europea.
Il messaggio più gradito al governo italiano è certamente la presa in considerazione di quella flessibilità sollecitata da tempo per avere un maggiore margine di manovra, potendo far valere in detrazione i costi relativi alle riforme, agli investimenti e alla spesa per i migranti.
Meno gradito il richiamo sulla mancata riduzione del debito pubblico, che la Commissione europea ritiene ridursi ancora troppo poco anche l’anno prossimo, tenuto conto dello sciagurato “fiscal pact”, disinvoltamente approvato dal Parlamento italiano nel 2012.
E non consola che peggio di noi faccia la Grecia, con un debito pubblico attorno al 180%, quando si sa quanti guai questo stia procurando ai nostri vicini, nonostante che il suo ammontare in valore assoluto sia soltanto un settimo del debito pubblico italiano.
Ma non tutti i mali vengono per nuocere: per la Grecia si stanno aprendo spiragli per l’alleggerimento del debito grazie a un prolungamento delle scadenze del rimborso, a una riduzione dei tassi di interesse e una soglia bloccata di rientro annuale fissata all’1% del Pil.
Sono spiragli che potrebbero contribuire a definire un piano europeo per rivedere il debito, non solo della Grecia, e condurre a una revisione delle rigidità del “fiscal pact”, voluto e imposto dalla Germania e contro il quale si moltiplicano le voci di protesta.
Tra queste, si leva forte quella dell’Italia, che insiste perché la crescita sia una priorità rispetto alle politiche di rigore e di austerità, trovando dalla sua parte alleati stanchi di subire i diktat della Germania e, in questi giorni, il suo ennesimo attacco alla politica monetaria della Banca centrale europea.
Alla Germania sarebbe il caso di tornare a ricordare almeno due cose. La prima, quando nel 2003-2004, insieme con la Francia, violò allegramente con decisione unilaterale il Patto di stabilità. E la seconda, che il debito pubblico tedesco – allora del 100% sul Pil – venne dimezzato dai Paesi europei nel 1953 per evitare alla Germania il “default”. E tra i Paesi che consentirono a quell’alleggerimento del debito tedesco c’erano anche la Grecia e l’Italia.