In pericolo il diritto di libera circolazione

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C’erano una volta le merci. Poi sono venuti i capitali e, pur con qualche paura di dumping sociale, i servizi. Da ultimo, l’Europa tartaruga ha partorito la libera circolazione anche per le persone, facendone la quarta libertà fondamentale tutelata dai Trattati, nonché un elemento essenziale della cittadinanza europea. Purché il passo della tartaruga non diventi quello del gambero: da qualche mese, le dichiarazioni di vari leader conservatori europei sembrano minacciare quello che, secondo i sondaggi Eurobarometro, resta di gran lunga l’aspetto più apprezzato dell’Unione da parte dei suoi cittadini, ovvero la possibilità di spostarsi, studiare e lavorare liberamente in qualunque Stato europeo.

Il diritto dei cittadini europei a circolare e soggiornare sul territorio di un altro Stato Membro nasce in principio come facilitazione per l’incontro di domanda e offerta sul mercato del lavoro comune, ma viene ben presto esteso non solo ai lavoratori e ai familiari a carico, ma anche alle persone in cerca di occupazione e, seppure in forma diversa, agli studenti e ai pensionati. Non solo: questo diritto non viene solo inteso come “libertà negativa” in quanto la CEE prima e l’UE si sono attivate per rendere effettivo il diritto alla libera circolazione mettendo in campo politiche in vari settori. Grande sforzo in questo senso è venuto in particolare negli anni ’80, quando la Commissione presieduta da Jacques Delors e il Parlamento per la prima volta eletto direttamente diedero grande slancio all’integrazione economica, sociale e politica dell’Unione. Dalla stretta applicazione della disciplina della non discriminazione al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, dai programmi di sostegno alla mobilità degli studenti e dei giovani lavoratori, come Erasmus e Leonardo, agli schemi per il mutuo riconoscimento delle qualifiche. Nel frattempo, alcuni Stati negoziano un meccanismo di cooperazione rafforzata per l’abolizione dei controlli alle frontiere interne: sono gli accordi di Schengen, di cui tutti ricordano la portata storica, anche perché la loro entrata in vigore viene poco dopo la caduta del muro di Berlino e l’avviamento dei negoziati per il grande allargamento dell’Unione Europea. A questi accordi aderiscono progressivamente tutti gli Stati dell’UE, ad eccezione di Regno Unito e Irlanda – che preferiscono mantenere stretta la sovranità sull’identificazione di chi proviene da “oversea” – come pure alcuni Stati parte dello spazio economico europeo (Svizzera, Islanda, Norvegia e Lichtenstein).

Proprio come la pace, la libera circolazione è un successo rivoluzionario dell’Europa unita di cui, un po’ per abitudine, un po’ per scarsa memoria storica, tendiamo a sottovalutare l’importanza e, soprattutto, la reversibilità. Un’Europa in cui per muoversi e cercare nuove opportunità dovessimo fare richiesta di un visto o di un permesso di soggiorno sembra fantascientifica, soprattutto a ragazzi della mia generazione, le cui biografie sono spesso fatte di percorsi di studio, di lavoro e di amicizia che ignorano l’esistenza delle frontiere.

Eppure, la storia insegna che nessun diritto può essere dato per acquisito. Eppure, tanto per cominciare, dal 2007 i cittadini bulgari e rumeni hanno visto il loro diritto alla libera circolazione limitato da restrizioni “straordinarie” e “temporanee” attuate da alcuni Stati dell’Unione, restrizioni che dovrebbero definitivamente essere abbattute nel 2014. Certo, si dirà, queste sono eccezioni che non intaccano il principio generale.

Eppure, l’anno scorso, durante la crisi umanitaria degli sbarchi dei migranti seguita alla primavera araba, il governo italiano e quello francese vanno ai ferri corti sull’applicazione di Schengen, cercando facili soluzioni nei “visti temporanei di lavoro” da un lato, e nella reintroduzione di stretti controlli alle frontiere dall’altro. E ancora, alla vigilia delle elezioni presidenziali che hanno sancito la sconfitta di Sarkozy e di quelle amministrative che hanno indebolito la Merkel, i ministri degli Interni di Francia e Germania stilano una lettera congiunta alla Presidenza di turno dell’Unione in cui propongono di riattribuire agli Stati Membri la sovranità in materia di controlli alle frontiere interne in casi ritenuti “di emergenza” (dunque a totale discrezione degli Stati stessi). Certo, si dirà, questo riguarda solo i cittadini extracomunitari.

Eppure, a inizio luglio Cameron dichiara che, nel caso di un’uscita della Grecia dall’Eurozona, il Regno Unito sarebbe pronto a derogare ai Trattati (o sarebbe piuttosto una violazione? Ricordiamoci che stiamo parlando di un elemento essenziale della cittadinanza europea) impedendo l’ingresso sul suolo britannico ai cittadini greci. Più che “soft” la replica del portavoce del Labour: “Speriamo che non si renda necessario, ma dobbiamo essere pronti a tutto”. Certo, si dirà, queste affermazioni hanno una valenza soprattutto interna se non meramente elettorale.

Eppure, persino il placido Belgio approva una legge che pone un tetto all’ingresso di studenti universitari francesi. Inoltre, il fatto che queste misure parlino alle sempre più rumorose minoranze nazionaliste non deve rasserenare ma piuttosto allarmare ulteriormente, soprattutto se consideriamo le tragedie che i nazionalismi hanno causato nella storia europea.

La solidarietà europea è a dura prova in questo periodo di crisi, come ci viene ricordato tutti i giorni. Resta da sperare che alla mancanza di coraggio verso un’unione economica e politica più forte non si accompagni una spinta regressiva nei confronti di una delle conquiste più importanti dell’integrazione europea.

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