Il trattato “CETA” e i venti del protezionismo

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Sotto lo choc del terremoto in Italia, col contenzioso sui conti con Bruxelles, distratti dal dibattito confuso sulla riforma costituzionale, per molti è passata inosservata la vicenda del Trattato CETA tra l’Unione Europea e il Canada, nonostante fosse stato oggetto di lunghi negoziati internazionali e con la prospettiva un impatto importante nella nostra vita quotidiana. Questo illustre sconosciuto porta un nome che sembra fatto apposta per non attirare troppo l’attenzione: CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement). In italiano: Accordo economico e commerciale globale.

L’Accordo stava per essere solennemente firmato a insaputa di molti, a ottobre, quando ha inciampato nell’opposizione di un Parlamento regionale belga, quello della regione francofona vallone, che ha voluto vederci più chiaro e mettersi al riparo da possibili conseguenze negative per la sua economia.

In una stagione della nostra storia dove la globalizzazione dell’economia – e più ancora della finanza – ha riservato brutte sorprese a lavoratori e consumatori, e nella quale si alzano i venti del protezionismo da una parte e dall’altra dell’Atlantico e non solo, il CETA era un test importante per saggiare le residue virtù del libero scambio e misurarne le conseguenze economiche e sociali per due importanti mercati, quello europeo e quello canadese.

A prima vista l’accordo sembrava abbattere in giusta misura barriere doganali tra i due mercati, in particolare nel settore dell’agricoltura con aperture al Canada e in quello lattiero, in favore dei produttori UE, salvaguardando prodotti a “indicazione geografica protetta” (IGP), come il nostro parmigiano per citarne uno. Piccolo problema: solo 145 di questi prodotti sui 1500 europei IGP sono finiti nella lista protetta. In compenso era prevista una maggiore apertura alla possibilità per le imprese europee di installarsi in Canada e per i lavoratori di veder riconosciute la loro qualifiche.

Apparentemente nulla di particolarmente stravolgente nella progressione del libero scambio mondiale se non fosse che, in una stagione critica per la globalizzazione, il CETA è stato individuato come il “cavallo di Troia” che avrebbe potuto riaprire la strada al più ambizioso Trattato di “Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti”. Sul banco degli accusati è infatti il più noto TTIP che ha scatenato l’opposizione di movimenti, sindacati e chiese delle due sponde dell’Atlantico, con un negoziato recentemente sospeso, in particolare nel clima segnato dalle preoccupazioni elettorali dei governi tedesco e francese e alla vigilia delle elezioni presidenziali USA.

In proposito gli osservatori sono tutti d’accordo nel prevedere che la nuova Amministrazione USA, qualunque essa sia il gennaio prossimo, sarà molto sensibile ai venti del protezionismo che hanno ripreso a soffiare in questi ultimi tempi caratterizzati dal ritorno delle frontiere e da ripetuti ostacoli al libero scambio internazionale.

Anche da questo punto di vista il CETA funzionerà come un test, dovendo ottenere il consenso nell’Unione Europea, superando le barriere di una quarantina di assemblee nazionali e regionali. Se dovessero ripetersi resistenze come quelle della regione francofona belga il processo di ratifica potrebbe durare anni. Si annunciano tempi difficili per i governi europei, da quello tedesco a quello francese, ma si stanno scaldando i muscoli anche in Austria, Ungheria, Olanda, Lussemburgo e altrove.

In Italia per ora la politica sembra impegnata su ben altri problemi, dal dramma del terremoto al dibattito infiammato sulla riforma costituzionale e, forse, sulla modifica della legge elettorale. Speriamo si trovi anche il tempo di alzare lo sguardo oltre il recinto di casa nostra, dove il mondo cambia e, come diceva Manzoni, “non sempre quello che viene dopo è un progresso rispetto a quello che c’era prima”.

 

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