Il sogno di indipendenza dei curdi

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E’ un sogno che viene da molto lontano e che non perde vigore e speranza. Il 25 settembre scorso, in occasione di un referendum e nonostante l’opposizione dello stesso Governo centrale, i curdi iracheni si sono espressi in massa in favore dell’indipendenza del Kurdistan.

Più di 4,5 milioni gli elettori, sparsi in tre province del Kurdistan autonomo, nonché in altre zone contese e rivendicate, come Kirkuk, Ninive, di cui Mosul è capoluogo e Diyala, ai confini con l’Iran.

Una tappa senz’altro importante per il popolo curdo la cui storia si puo’ riassumere in poche parole: una realtà culturale nazionale senza Stato, suddivisa tra diversi Stati, oppressa ovunque e carica di ataviche sofferenze. Una popolazione di più di 35 milioni di persone disseminate su una regione, il Kurdistan, di circa 550.000 chilometri quadrati che si estende fra Turchia, Iran, Iraq e Siria.

I curdi iracheni, le cui ultime persecuzioni risalgono al periodo della dittatura di Saddam Hussein, hanno ancora tutte le ferite aperte e le paure che si trasmettono di generazione in generazione. In Iraq vivono, in gran parte, in quella provincia autonoma a nord est del Paese che ha per capitale Erbil, una zona fertile, ricca di petrolio e di risorse idriche. Hanno un Governo regionale presieduto da Massud Barzani e un Parlamento. I rapporti con il Governo centrale sono sempre più tesi, tanto che Bagdad ha sospeso, ormai dal 2014, i finanziamenti alla regione curda, alimentando in tal modo rivendicazioni e desiderio di indipendenza. Un’indipendenza e un’unità nazionale sfiorate solo all’indomani della prima guerra mondiale e poi costantemente dimenticate dalla comunità internazionale.

Oggi, questo referendum, se da una parte era vissuto dai curdi come un primo passo verso l’indipendenza della regione e, di fatto, volto a costituire il primo nocciolo di un Grande Kurdistan, dall’altra solleva inquietudini e ferme opposizioni da parte di quasi tutti i Paesi della regione, salvo Israele, nonché di gran parte della comunità internazionale, Stati Uniti, Unione Europea e Nazioni Unite in testa. E le reazioni al riguardo non si sono fatte attendere.

Oltre alle reazioni minacciose di Bagdad, a livello regionale le opposizioni più ostili sono state quelle della Turchia e dell’Iran. I due Paesi sono evidentemente preoccupati per l’effetto che quella dichiarazione di indipendenza potrebbe avere sulle loro rispettive minoranze curde, una prospettiva che rimetterebbe in discussione la loro integrità territoriale e costituirebbe un precedente giudicato pericoloso e destabilizzante per l’intera regione. Le reazioni non si sono tuttavia limitate a minacce verbali e, già all’indomani del referendum, Bagdad ha chiesto la sospensione dei voli internazionali verso Erbil, con l’obiettivo di isolare la regione e imporre misure di ritorsione che potrebbero costare care al popolo curdo. Non solo, ma sono anche risuonati tamburi di guerra proprio ai confini con Turchia e Iran.

Anche la comunità internazionale, malgrado l’apprezzamento dell’eroico impegno dei peshmerga nella lotta contro il sedicente Stato islamico, ha espresso la sua contrarietà al referendum e alla prospettiva di una dichiarazione unilaterale di indipendenza. Troppe le incognite sul piano geopolitico e troppi gli interessi economici e petroliferi che si incrociano proprio in quella regione.

A prevalere non sarà quindi la realizzazione del sogno legittimo di un Kurdistan indipendente. Il voto plebiscitario di indipendenza servirà tuttavia a rafforzare il potere negoziale dei curdi con Bagdad su una serie di questioni cruciali tuttora in sospeso, quali ad esempio la gestione delle importanti risorse petrolifere della regione e lo statuto delle aree contese, in particolare di Kirkuk, nodo cruciale quest’ultimo nel crocevia economico della regione.

Resta il fatto che il 25 settembre 2017 segna una data importante per il Kurdistan e apre una nuova fase nell’insieme di una regione già fortemente destabilizzata.

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