Da sempre oggetto di dibattito e di conclusioni perlopiù rinviate, il tema del modello sociale europeo e della sua riforma ha tutta l’aria di tornare al centro del confronto sul futuro dell’Unione europea e questa volta con esiti concreti. Non lo fa pensare soltanto l’iniziativa di Blair che, nella sua veste di Presidente di turno dell’UE, ha convocato a Londra un Consiglio europeo informale il 27 e 28 ottobre prossimo con il tema all’ordine del giorno. In fondo il Primo ministro britannico non fa che cogliere con abilità il momento propizio che gli offre da una parte la dura competizione internazionale e dall’altra l’evidente crisi di coesione nell’UE insieme con la crescente voglia di molti governi di centro-destra (rafforzati in questi ultimi giorni dalle elezioni tedesche e polacche) di mettere in discussione un modello di società che dal dopoguerra in poi porta il marchio della cultura socialdemocratica. E poichà© il dibattito si annuncia non solo complesso ma anche confuso e non privo di ambiguità , puಠessere utile tentare di chiarire almeno i termini dell’argomento, cominciando col tratteggiare rapidamente che cosa s’intende con «modello sociale europeo», «modello di società europea» o ancora – per riprendere l’espressione del progetto di Costituzione europea – «economia sociale di mercato».
Gli ingredienti del modello «sociale» europeo
Il modello sociale europeo puಠessere definito come un insieme articolato di strumenti con i quali il regolatore pubblico e la società traducono una certa cultura dei diritti e una concezione della solidarietà tra i gruppi sociali, le generazioni e i territori della comunità cui si appartiene. Su una simile definizione il consenso è ampio. Le cose si fanno più difficili quando si tratta di identificare gli strumenti pubblici della solidarietà ed il loro campo di intervento. Si prenda ad esempio il sistema di protezione sociale con le sue diverse componenti: pensioni, sanità , sostegno alla famiglia e al lavoro, la casa, ecc. Già questa lista non trova tutti d’accordo ed ancor meno il peso relativo di ciascun elemento rispetto agli altri. E’ risaputo ad esempio quanto sia fuori dalla media europea la spesa italiana per le pensioni e quanto questi costi penalizzino le altre voci della protezione sociale, nonostante che nel suo insieme la spesa sociale italiana sia addirittura inferiore alla media europea.
Ma le cose si complicano ulteriormente se si guarda agli altri strumenti della solidarietà : basta citarne alcuni per misurare l’ampiezza delle divergenze. I servizi pubblici per esempio: quali debbono essere garantiti a tutti e con quale livello di qualità rispetto alle soglie di reddito? E ancora: quali garanzie per chi ha perso il lavoro per una crisi d’impresa e quali incentivi per stimolare la ricerca di un nuovo impiego? Quali forme contrattuali e con quali flessibilità regolare i rapporti di lavoro e con quali garanzie per i lavoratori? In Italia, la legge n. 30 (impropriamente chiamata «legge Biagi») ha creato nuove flessibilità ma è dubbio che abbia migliorato la qualità del mercato del lavoro e la solidità della nostra economia. E il ruolo delle parti sociali, sindacati e imprenditori, quale deve essere in una società democratica e quale il ruolo dei pubblici poteri nella regolazione sociale del mercato? La lista degli interrogativi sugli ingredienti del nostro modello sociale è ancora molto lunga. Un’ultima domanda perಠsarà bene non trascurare in questa stagione di «devolution»: quale solidarietà tra le Regioni del nostro Paese e tra i Paesi dell’UE? La risposta non puಠevitare l’elemento centrale della solidarietà , il suo nucleo duro che è la fiscalità . Le recenti proposte al centro delle campagne elettorali tedesche e polacche sulla «flat tax» con un’aliquota impositiva unica che non rispetta la progressività della tassazione e non colpisce equamente nà© le rendite finanziarie nà© i profitti delle società sono un segnale chiaro di rotture di solidarietà che metteranno a dura prova il nostro modello sociale, oltre a scatenare una prevedibile competizione fiscale tra i Paesi membri a tutto danno della coesione dell’Unione europea.
Ma esiste un «modello» sociale europeo?
Alla vigilia di un confronto che si propone di riformare il modello sociale europeo è lecita una domanda semplicissima: ma esiste veramente un modello sociale europeo o non è piuttosto un orizzonte verso cui incamminarsi? L’Unione europea come si è venuta configurando nel suo cammino ancora incompiuto ha raccolto 25 Paesi con storie, culture, società tra loro anche molto diverse e ciascuna con un proprio «modello» sociale che negli anni – e nei migliori dei casi – è andato convergendo con gli altri, mantenendo tuttavia ampie specificità . Si pensi ad esempio quant’è diversa la fiscalità che sostiene la protezione sociale nei Paesi del Sud dell’UE da quella dei Paesi nordici fondata sulla fiscalità generale e non, come da noi, su prelievi specifici sui redditi da lavoro. E’ noto quanto sia grande la differenza nel campo della sanità tra i Paesi a struttura mutualista e quelli dotati di un sistema sanitario nazionale. Ancor più rilevante la divergenza tra i servizi pubblici di interesse generale o tra i sistemi pensionistici. Per non parlare delle relazioni sindacali che in alcuni Paesi – la Germania, ad esempio – sono determinanti nella regolazione sociale e in altri – come la Francia – dove sono relativamente marginali. E la lista sarebbe ancora lunga degli elementi di differenziazione. Tutti perಠresi compatibili da un comune riferimento alla cultura dei diritti e della solidarietà , declinata in ciascun Paese in conformità con la propria storia e le specifiche condizioni socio-economiche. Ora perà², man mano che l’UE si allarga e che cresce l’esigenza di una nuova coesione tra diversi, il bisogno di un nuovo orizzonte sociale comune si fa sentire.
Se questo è il quadro attuale dei nostri molteplici modelli sociali, forse la priorità non è quella di riformare un modello unico inesistente quanto piuttosto di cercare insieme una convergenza almeno sugli obiettivi se non ancora sugli strumenti. Ma allora il problema non è tanto, e sicuramente non prima, quello di riformare il «modello sociale europeo», ma piuttosto quello di dotarsi di un’adeguata capacità di governo perchà© sia possibile far convivere armoniosamente modelli sociali diversi che ancora a lungo vivranno nell’Unione e avviarli verso un orizzonte di solidarietà condiviso. Perchà© questo possa avvenire l’obiettivo da perseguire è quello di un’Unione politica: proprio quello che Blair – e molti altri nostri governanti con lui – non vogliono, soddisfatti se l’Unione resta un grande mercato e uno spazio di competizione non appesantito da troppe regole e con una dimensione sociale minima. E tanto peggio per la solidarietà in nome della quale 50 anni fa era nata l’Unione.