La Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro ha recentemente analizzato la situazione dell’occupazione giovanile negli Stati membri a partire dal dato quantitativo secondo il quale il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 16 e il 24 anni è doppio rispetto a quello registrato nella popolazione totale.
La recessione, si legge nel Rapporto ha reso il problema particolarmente grave determinando negli ultimi anni un aumento quelli che con un nuovo acronimo vengono chiamati NEETs (Not in Education, Employment or Training, giovani non occupati in attività di istruzione, lavoro o formazione) tra cui oggi, a differenza che in passato, figurano anche persone con un elevato livello di istruzione..
Sia pure in un contesto in cui le misure di inclusione attiva rivolte ai giovani sono state messe a dura prova dalla crisi, vi sono in Europa alcuni «approcci promettenti» che potrebbero estendersi: vengono citati i casi dei Paesi Bassi, all’avanguardia per il reinserimento di disoccupati di lungo corso o per l’inserimento di giovani con disabilità e della Finlandia dove si rivela particolarmente efficace il mix tra politiche attive del lavoro, reddito minimo e servizi di supporto. Altre buone pratiche sono individuate nel Regno Unito e in Danimarca rispettivamente per la formazione dei lavoratori poco qualificati e per l’inserimento lavorativo di gruppi particolarmente svantaggiati.
I giovani sono coloro che più frequentemente si vedono offrire impieghi «non standard» (con questa espressione vengono indicati i contratti a termine, quelli part time, quelli stipularti dalle agenzie di somministrazione, i contratti a chiamata e i contratti week end) il cui impatto sulla progressione di carriera dei lavoratori è ancora «ambiguo». Questi contratti, infatti, sono spesso l’unico punto di accesso al mercato del lavoro per i giovani e hanno un effetto positivo sulle dinamiche occupazionali generali, determinando un aumento quantitativo dei posti di lavoro creati, ma generano situazioni di precarietà dalle quali è difficile uscire:
I giovani sono i più esposti alla perdita del lavoro e, al tempo stesso, sono anche i più «ottimisti» sulle possibilità di evitare lunghi periodi di disoccupazione giustapponendo una serie di collocazioni lavorative «non standard».
Particolare attenzione viene dedicata dal Rapporto al tema del ruolo dei partner sociali e dei loro rapporti in una situazione di crisi strutturale prolungata: vi è consenso unanime tra le parti sociali circa la necessità di aumentare gli investimenti nei sistemi educativi, nella formazione professionale e nell’apprendistato.
Sindacati e soggetti datoriali, perà², divergono – soprattutto in alcuni stati UE – sulla necessità di rimuovere alcune «barriere percepite» all’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro: i soggetti datoriali particolarmente «preoccupati» dai dispositivi di reddito minimo e da vincoli contrattuali troppo lunghi, mentre le Organizzazioni Sindacali – spesso alle prese con il problema di rappresentare i giovani e attrarli al loro interno – impegnate nella difesa della qualità del lavoro.
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