Etiopia in guerra

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In un momento di grande distrazione della comunità internazionale dovuta alle elezioni americane e alla pandemia di covid 19, sono scoppiate violenze e conflitti in Etiopia, il Paese più popolato dell’Africa con 102 milioni di abitanti, di cui il 70% sotto i 25 anni. Un Paese composto da 80 gruppi etnici, 90 lingue diverse, suddiviso in nove Stati regione, con una storia che ha radici millenarie e un popolo che non trova pace. 

Ha conosciuto tuttavia un grande momento di speranza e di fierezza quando l’attuale Primo Ministro Abiy Ahmed Ali, in carica dall’aprile 2018, ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 2019, con una motivazione che si rivolgeva indirettamente all’insieme del continente africano.  Premiava infatti  “i suoi sforzi per raggiungere la pace e la cooperazione internazionale, e in particolare per la sua decisiva iniziativa per risolvere il conflitto di confine con la vicina Eritrea”. 

Da due settimane a questa parte, purtroppo, la pace dell’Etiopia è di nuovo fortemente in pericolo, messa in grave difficoltà dalla complessità istituzionale interna, dal rapporto di forza fra il potere centrale e i vari poteri regionali, dalle forti spinte identitarie e secessioniste e dalle irrisolte fratture etniche e sociali che compongono il Paese. Ed è in questo contesto di gestione e di riequilibrio dei poteri, alla luce anche di interpretazioni variabili di una Costituzione federale che prevede il diritto all’autodeterminazione delle nazionalità etiopiche, che è scattata l’offensiva militare federale di Abiy Ahmed contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf), la regione più a nord dell’Etiopia, ai confini con l’Eritrea. 

L’offensiva militare decisa dal Governo, dopo vari episodi di tensione, è scattata a poche settimane da quello che il Primo Ministro ha considerato il superamento di una “linea rossa” da parte delle autorità tigrine e cioè l’organizzazione, nello scorso mese di settembre, di elezioni nel Tigray, malgrado la decisione di far slittare le elezioni nazionali a data da destinarsi. Se il Governo federale considerava una tale mossa come un attacco allo stato di diritto e un ostacolo alla transizione democratica, alla riconciliazione e all’unità del Paese, il Tigray considerava il premier Abiy Ahmed un leader non più legittimato da nuove elezioni. 

Questa situazione che si può definire di guerra civile è purtroppo, per il momento, solo nelle mani delle armi e mette seriamente in pericolo il futuro dell’Etiopia, sempre più attraversata da aspirazioni di autodeterminazione o secessioniste non solo nel Tigray. Nel frattempo il conflitto sta sfociando in una vera e propria catastrofe umanitaria, con migliaia di persone che cercano riparo, in particolare, nel vicino Sudan. 

Ma è anche una situazione in rapida evoluzione, visto che le autorità tigrine stanno cercando, con il recente lancio di missili su Asmara, di superare i confini dell’Etiopia, e coinvolgere nel conflitto anche l’Eritrea. Una prospettiva pericolosa non solo per il processo di riconciliazione fra i due Paesi, ma anche per il pericolo di infiammare e destabilizzare l’intera regione del Corno d’Africa.

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