Cancellare il debito per non cancellare l’Africa

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Ci sono voluti anni di promesse non mantenute (per non andare troppo lontano, fin dal non dimenticato G-8 di Genova nel 2001 e poi da quello di Calgary nel 2002 e di Evian nel 2003) e la cattiva coscienza anglo-americana per la guerra in Iraq perchà© nel prossimo G-8 a Gleneagles in Scozia il 6-8 luglio un primo passo venga finalmente fatto verso la cancellazione del debito dei Paesi poveri. Non si tratta sicuramente dell’evento «epocale» di cui ha parlato il ministro Siniscalco nà© di un azzeramento del debito come qualcuno vorrebbe lasciar credere: una buona ragione per andare a vedere più da vicino il progetto di accordo raggiunto l’11 giugno scorso tra i Mnistri delle Fnanze del G-8 e che, salvo sorprese, dovrebbe essere adottato formalmente a luglio. Ma nel frattempo sarà   bene non distrarsi sulle tecniche finanziarie che saranno utilizzate per realizzare le misure promesse e sul futuro delle politiche di cooperazione allo sviluppo.

Attenzione ai trucchi contabili

Purtroppo non solo in Italia esiste la «finanza creativa». Lo dimostrano le cifre sparate la settimana scorsa a Londra. Si è parlato di 55 miliardi di dollari, poi di 40: resta da spiegare quando, per chi e da chi cancellati. Da subito verrebbe ridotto il debito a 18 Paesi (14 africani e 4 latino-americani) per un valore di 40 miliardi di dollari; altri 15 miliardi potrebbero beneficiare ad altri 20 Paesi (quasi tutti africani) entro la fine del 2006. Ma di azzeramento si puಠparlare solo per quanto riguarda i debiti contratti con due Istituzioni internazionali (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale), escludendo quindi i debiti contratti con i singoli Paesi per i quali si aspettano notizie più precise e soprattutto chiare.
Solo allora si potrà   valutare se ci si avvia veramente verso l’azzeramento atteso da anni o solo di una riduzione, valutabile ad oggi attorno ad un 30 % del debito globale. A questo si aggiunga che si tratta comunque di un debito del tutto inesigibile viste le condizioni di povertà   dei Paesi interessati, beneficiari ma anche e soprattutto vittime del debito: insomma molto più una restituzione che non una donazione e sicuramente non un azzeramento.

Quali politiche per il futuro dello sviluppo?

Ma tutto questo riguarda il passato. E in futuro, quale sostegno allo sviluppo? Cominciamo dagli aiuti allo sviluppo lasciando per dopo qualche osservazione sulle politiche che dovrebbero promuoverlo. Anche qui partiamo da promesse ormai antiche formulate in sede ONU che aspettano di essere mantenute. L’obiettivo che si erano dati i Paesi ricchi era quello di destinare agli aiuti per lo sviluppo lo 0,7% del Prodotto interno lordo, come dire una briciola della ricchezza nazionale. Ad oggi tre Paesi soltanto hanno tenuto fede alla promessa: la Norvegia, la Svezia e l’Olanda. Molto sotto la soglia tutti gli altri, con l’Italia ancora una volta in ultima posizione con un eloquente 0,15%. E qui entrano in gioco il ruolo e le responsabilità   dell’Unione europea. Il 24 maggio scorso i Ministri della Cooperazione dell’Ue hanno raggiunto un accordo anche in questo caso giudicato «miracoloso»: dopo aver constatato che oggi l’aiuto pubblico allo sviluppo degli ex-15 ha raggiunto lo 0,39%, si sono impegnati a portarlo allo 0,56% nel 2010 e al promesso 0,7% nel 2015. Impegno che non vale per i dieci nuovi Paesi appena entrati il cui traguardo è lo 0,17% nel 2010 e lo 0,33% nel 2015. Come se questo non bastasse c’è una dichiarazione messa a verbale da Germania, Portogallo e Italia che invocano i limiti del Patto di Stabilità   sui propri bilanci nazionali per mettere le mani avanti e preannunciare che l’impegno già   modesto potrebbe non venire onorato nei tempi convenuti. Se a questo si aggiunge che spesso nelle finanze pubbliche funziona un perverso principio dei «vasi comunicanti» e che alto è il rischio – che questo nostro Governo ha già   sperimentato con i costi della guerra in Iraq – che per mantenere gli impegni su capitoli di spesa più visibili e sorvegliati si operino trasferimenti da altri capitoli più o meno contigui con il risultato di un saldo zero sul versante della solidarietà   internazionale.
Ma gli aiuti da soli – sempre che siano reali – non fanno una politica dello sviluppo, anzi sono fattori piuttosto residuali. Molto di più incidono le politiche economiche, monetarie e commerciali: da queste dipende la possibilità   per i Paesi poveri di far valere le proprie ricchezze naturali, di aumentare la quantità   e la qualità   delle proprie produzioni e di poterle far circolare sui mercati mondiali a prezzi corretti. Purtroppo non solo non li aiuta l’«invisibile (ed introvabile) mano del mercato» che pure già   darebbe un importante contributo, ma li aspetta la barriera più o meno mascherata del protezionismo. Si pensi all’agricoltura e alle protezioni di cui gode nell’Unione europea: per tenere sul mercato le nostre produzioni e impedire l’ingresso di quelle africane o latino-americane spendiamo quasi la metà   del bilancio dell’Unione, penalizzando contemporaneamente contribuenti e consumatori, mortificando politiche innovative e convivendo con una disoccupazione del 10%, molto di più degli addetti in agricoltura (magari quegli stessi che in Francia e in Olanda hanno detto NO alla Costituzione europea!).
Il 16 e 17 giugno il Consiglio europeo dovrebbe decidere quali risorse destinare alle sue politiche per il periodo 2007 – 2013: la decisione o un suo rinvio dirà   chiaramente di quale solidarietà   è capace l’Unione. La Commissione europea ha proposto di destinare alla cooperazione allo sviluppo circa il 4% del futuro pacchetto finanziario, un decimo di quanto previsto per la nostra politica agricola comune. E c’è il rischio che la decisione del Consiglio europeo peggiori ancora questi dati. Come dire che dopo la decisione dei giorni scorsi del G-8 a Londra non è ancora venuto il momento di cantare vittoria: molti debiti del passato restano e altri nuovi debiti si profilano all’orizzonte.

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