Le guerre in corso ai nostri confini, con qualche prima e per ora limitata incursione in casa nostra, e le ripetute irruzioni a piedi giunti di Donald Trump in questo mondo fuori controllo stanno riducendo l’attenzione sull’urgenza della lotta al surriscaldamento climatico mentre ne vengono ritardate le azioni per contrastarlo.
E’ quanto sta accadendo nel mondo con l’aumento di produzione dell’energia fossile e negli Stati Uniti dove torna a prevalere l’onda negazionista che Trump ha tradotto all’ONU denunciando la crisi climatica come una “truffa”, al punto di lasciare la bandiera della politica climatica addirittura alla Cina.
Purtroppo da questo clima politico non esce indenne nemmeno l’Unione Europea, fino a poco tempo fa all’avanguardia nelle politiche ambientali come condotta nella scorsa legislatura 2019-2024, ma in forte perdita di velocità nella legislatura in corso, con continui cedimenti da parte della Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen.
E’ il risultato di una doppia pressione, una più comprensibile e una più pericolosa e pervasiva, sull’insieme delle politiche europee.
Quella più pericolosa la si può riassumere con la parola “deregolamentazione”: una deriva che viene da lontano, accelerata dalla disinvoltura con cui gli Stati Uniti stanno liberando gli “spiriti animali del mercato” per ricavarne il massimo dei profitti senza essere rallentati da regole per governarne i necessari equilibri tra le forze in campo.
Non è questa – almeno non ancora – la cultura dell’Unione Europea e della sua “economia sociale di mercato”, attenta alle necessarie regolamentazioni utili per consentire coesione al proprio interno e proteggere le fasce più deboli della sua popolazione. Ne è risultata una “rete di protezione”, sociale e non solo, unica al mondo ma rispetto alla quale sembra prevalere quella della protezione militare.
Su questa tela di fondo sempre più incombente si innesta per le politiche ambientali europee una seconda pressione, quella delle compatibilità economiche e sociali da assicurare in questa complessa transizione ecologica. Ne sono interpreti soprattutto gli attori economici cui sono particolarmente sensibili le forze al governo, preoccupate per il precario consenso di cui godono. E’ stato ancora nei giorni scorsi il caso del ministro italiano dell’economia e delle finanze, che intervenendo al Senato, ha invitato l’UE a “fare mea culpa sul disastro della transizione ecologica”,
bene allineato con la presidente del Consiglio, a sua volta non lontana da Trump, in questa e in altre questioni politicamente sensibili, come sui migranti.
Ne risente evidentemente l’iniziativa della Commissione, già indietreggiata sul tema a diverse riprese, come nel caso delle deroghe ambientali concesse per la politica agricola, delle aperture all’industria automobilistica per allentare vincoli ambientali o alle eccezioni sull’uso dell’energia fossile in provenienza dalla Russia per Ungheria e Slovacchia. Più recentemente è stato anche consentito dall’UE un ritardo ad una legge storica che vieta le importazioni legate alla deforestazione, rinvio che non deve essere dispiaciuto a Washington.
Ritroveremo puntualmente il tema nel corso del negoziato in fase di avvio sul futuro bilancio comunitario 2028-2034, quando si tratterà di arbitrare le scarse risorse disponibili tra l’incremento della spesa per la difesa e quelle per la salvaguardia ambientale candidata vittima, con il welfare, a pagare il prezzo degli impegni presi dai Paesi UE membri della NATO.
Aldilà dei discorsi e delle buone intenzioni, saranno i numeri dei bilanci nazionali e di quello comunitario a dirci quali saranno le vere priorità politiche dei prossimi anni.