È di nuovo altissima la tensione in Israele dopo i barbari assassini dei tre giovani israeliani e la conseguente vendetta che ha portato all’uccisione di un giovane palestinese. La risposta sul piano militare si è concretizzata, da parte di Gaza e di Hamas con nutriti tiri di razzi che hanno raggiunto la periferia di Tel Aviv, fatto suonare le sirene di Gerusalemme Ovest e sfiorato una centrale nucleare israeliana. Da parte israeliana con bombardamenti aerei sulla Striscia di Gaza che hanno già provocato numerose vittime civili, fra cui donne e bambini. Non solo, ma Israele sta richiamando un importante numero di riservisti in previsione di un attacco terrestre contro Gaza. Se queste sono le dimostrazioni di forza militare, le peggiori che si possano immaginare per le disastrose conseguenze di una nuova guerra, pochi o nulli appaiono ormai i margini di manovra per sperare non solo in un riavvio di un ipotetico processo di pace ma anche per immaginare che si fermi quell’escalation di odio e di violenza di cui siamo stati spettatori anche in questi ultimi giorni. Odio e violenza che sembrano ormai entrati a far parte della vita quotidiana in Terra Santa, insieme alla rassegnazione di fronte ad un introvabile dialogo e all’impossibile prospettiva di convivenza fra due Stati. L’unico strumento ripetutamente usato, inutilmente, in questi ultimi cinquant’anni, fatta eccezione per quel barlume di speranza nato con gli Accordi di Oslo nel 1993 e poi irrimediabilmente spento, è la guerra. E Israele, soprattutto con la sua intransigenza nel portare avanti il suo progetto di colonie nei Territori occupati, ha dimostrato a volto scoperto la sua concezione di pace, intrisa di sopraffazione e di ingiustizia.
Una politica portata avanti da una destra sempre più radicale e cieca che ha portato Israele in una situazione di stallo totale e per la quale l’unica via per garantire la sicurezza è quella delle armi. Ne sono la prova non solo le dimissioni del Ministro degli Esteri Libermann che considera troppo cauta la risposta di Netanayahu ad Hamas, ma anche la crescente radicalizzazione di una parte della società israeliana, in particolare fra i giovani delle colonie. Un aspetto quest’ultimo con il quale il Governo israeliano dovrà fare i conti in futuro.
Da parte palestinese, malgrado l’approccio di Abu Mazen di tentare pazientemente la via diplomatica, Hamas, in cerca di una nuova legittimazione e protagonismo, traduce militarmente la profonda sofferenza dell’immobilità di una situazione che non prevede futuro di crescita e dignità per il popolo palestinese.
E intanto, vista la gravità della situazione cerca di muoversi la diplomazia regionale e internazionale, con l’unico obiettivo di fermare questa nuova escalation verso la guerra. A livello regionale tuttavia la situazione è in pieno mutamento con l’avanzare di movimenti islamisti radicali e jihadisti con una visione politica in proposito ancor più inquietante e con un Egitto questa volta molto più reticente che nel 2012 ad assumere il ruolo di mediatore nei confronti di Hamas.
Ancora una volta quindi israeliani e palestinesi sembrano avviarsi verso una nuova e inutile guerra, facendo saltare quel fragile cessate il fuoco negoziato nel novembre 2012. È tuttavia importante, per sperare nella pace, riportare qui di seguito le parole che la mamma israeliana ha rivolto alla mamma palestinese: “Condividiamo il vostro dolore, nessuno dovrebbe mai patire la nostra stessa sofferenza. Speriamo che la calma ritorni nelle strade del nostro Paese”.
Ma per ora questa speranza è appesa a un filo estremamente fragile.