Alla metà del cielo, metà del Recovery Fund?

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Ci vorrà ancora tempo per vendere la pelle dell’orso, quella delle ingenti risorse finanziarie deliberate dal Consiglio europeo il luglio scorso: una “pelle” che vale 750 miliardi di euro per il “Recovery Fund”, risorse che si aggiungono ai 1100 miliardi previsti per il bilancio 2021-2027. Resta adesso da catturare l’orso: l’approvazione definitiva del “tesoro” e la sua attivazione amministrativa, tema oggi ancora alle prese con divergenze tra gli Stati membri e tra il Consiglio europeo e il Parlamento di Strasburgo.

Le divergenze si sono confermate nel Consiglio europeo del 15-16 ottobre: sul rispetto della democrazia per gli Stati beneficiari delle risorse UE, versante su cui si scontrano Paesi “frugali” (Olanda e Paesi nordici) e la banda di Visegrad (Polonia e Ungheria in particolare), nodo sul quale forte si è fatta sentire la voce del Parlamento europeo, come pure sul volume del bilancio 2021-2027 che l’Assemblea di Strasburgo vuole aumentato in favore di capitoli come la ricerca, l’ambiente e il Programma Erasmus.

In attesa di un chiarimento e di un avvio degli interventi finanziari molte sono state le richieste per l’assegnazione di queste risorse, tanto di metodo che di merito. Quanto al metodo sono state invocate modalità di intervento innovativo, piuttosto che la ripresa di vecchi progetti tirati fuori dai cassetti dei ministeri, una ripartizione equilibrata tra le diverse componenti sociali e i territori che dovranno beneficiarne. Quanto al merito ha già pensato la Commissione a definire quali dovranno essere le priorità settoriali di intervento, in particolare per le politiche ambientali, prestando attenzione alla relativa transizione sociale, e per il digitale e la ricerca, accelerando la modernizzazione della nostra economia.

In questi ultimi giorni, ma provenendo da lontano, si è fatta strada una rivendicazione che chiede ai governi di destinare una quota importante del “Recovery Fund” per l’occupazione femminile,  presente sul mercato del lavoro con una popolazione attiva, rispetto a quella in età lavorativa, del 60% nell’UE ma solo  del 48% in Italia, ulteriormente penalizzata dalla pandemia con una caduta del lavoro femminile in Italia del 20%. A questo si aggiunga che nel digitale, uno dei settori indicati come prioritari, si registra in Europa una presenza di occupazione femminile di appena il 16-17%.

E’ in questo contesto che ha preso slancio in Italia la petizione “Il giusto mezzo” che, con le sue prime 40 mila firme, rivendica un’equa distribuzione delle risorse straordinarie disponibili per rimediare a vecchi squilibri sul mercato del lavoro che, penalizzando la presenza femminile, pesano nella vita sociale e familiare e zavorrano la nostra economia che, con un tasso di occupazione femminile aumentato al 60%, si stima potrebbe produrre un incremento del 7% del Prodotto interno lordo (Pil).

Alla rivendicazione quantitativa del movimento “Il giusto mezzo”, il presidente Conte ha risposto dinanzi al Parlamento con l’impegno a “indirizzare con la massima determinazione una parte significativa del Recovery Fund” alle donne e al loro lavoro, dopo che una Risoluzione della maggioranza aveva chiesto di valutare “l’impatto di genere di tutti i progetti” che verranno inseriti nella proposta italiana a Bruxelles.

Si tratta di obiettivi non facili da realizzare, come insegna l’esperienza del passato e come annunciano le difficoltà in vista per la complessità dell’operazione a livello europeo, cui si aggiungono i ritardi culturali e sociali propri del nostro Paese: l’obiettivo non è solo la quantità di risorse da destinare all’”altra metà del cielo”, ma molto di più la capacità di attivare politiche orizzontali in grado di promuovere ovunque la dimensione femminile.

Non sfugge però a nessuno che si tratta questa volta di un’occasione irripetibile: sta passando un treno sul quale debbono poter salire molte più donne, per orientarne la direzione e imprimergli velocità per aiutare l’Italia a svoltare verso la modernità.

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