Salvare Gaza e il popolo palestinese

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Non si ferma il premier israeliano Netanyahu nel voler proseguire una guerra ad oltranza a Gaza, con l’obiettivo ormai apertamente dichiarato di voler occupare l’intera Striscia. Una decisione carica di risvolti preoccupanti e di gravi interrogativi sul futuro del popolo palestinese.

Venerdì 8 agosto, infatti, Netanyahu ha presentato la sua “strategia”  dichiarando di voler” prendere il controllo del territorio” senza giungere all’annessione. Strategia approvata dal Gabinetto di Sicurezza di Israele che precisa i termini dell’operazione per porre fine alla guerra: il disarmo di Hamas, il ritorno di tutti gli ostaggi, vivi e morti; la smilitarizzazione della Striscia e la gestione israeliana della sicurezza; l’istituzione di un’amministrazione civile che non sia nelle mani di Hamas e dell’Autorità nazionale palestinese. Dopo 22 mesi di guerra, di bombardamenti devastanti, di uso degli aiuti alimentari come arma per affamare la popolazione civile e nessuna risposta ad un cessate il fuoco invocato sempre più dalla comunità internazionale e dall’ONU, controllare il territorio, già occupato all’80%, significa soprattutto occupare militarmente la città di Gaza e i campi profughi, al centro della Striscia, dove ancora sopravvivono fra le macerie più di un milione di persone. Un’operazione che include l’evacuazione della città e lo sfollamento dei palestinesi, con la prospettiva di una escalation militare di lunga durata. Data tuttavia fissata da Israele per raggiungere tale obiettivo è il prossimo 7 ottobre. E questo ignorando gli avvertimenti dei vertici militari e le posizioni di una parte della società civile israeliana.

Per il momento nessuna risposta da parte del Governo israeliano, sempre più ostaggio, per la sua tenuta, delle forze di estrema destra, sulla gestione dell’occupazione di Gaza City: dove andranno gli abitanti, quale trattamento, quale futuro sarà riservato ad una popolazione che dipende ormai quasi esclusivamente dagli aiuti alimentari e umanitari, dove l’economia è completamente ferma e le terre agricole sfruttabili ridotte all’1,5% di quelle precedentemente esistenti. I rischi  e gli ingredienti di una nuova Nakba (catastrofe) come quella vissuta dai Palestinesi nel 1948 sono tutti presenti anche oggi.Altro interrogativo senza risposta è quello di “voler creare un perimetro di sicurezza e consegnare Gaza alle forze arabe che la governeranno correttamente”. Un obiettivo sospeso nel vuoto, visto che nessun Paese arabo ha sostenuto il Piano di Netanyahu, così come la maggior parte della comunità internazionale, esclusi gli Stati Uniti. Nessun Paese arabo potrebbe candidarsi ad amministrare la Striscia, in ragione del fatto che una tale decisione equivarrebbe ad annullare l’aspirazione e la lotta dei Palestinesi per il riconoscimento dei loro diritti e della loro sovranità.

Nella stessa direzione anche le dichiarazioni di Francia e Gran Bretagna al Consiglio di sicurezza dell’ONU, riunitosi d’urgenza lunedì 11 agosto: ”Questa non è una strada verso la soluzione ma una strada verso un maggior versamento di sangue e non farà nulla per porre fine al conflitto”. Non solo ma “metterà ancora più a rischio la vita degli ostaggi ed esacerberà una catastrofe umanitaria”. Nel frattempo, l’opposizione internazionale al piano di Israele si allarga. Con un cambio significativo di atteggiamento politico nei confronti di Israele,  il Governo tedesco ha deciso di sospendere le esportazioni di attrezzature militari che potrebbero essere utilizzate nella Striscia, mentre la lista dei Paesi che potrebbero riconoscere lo Stato di Palestina il prossimo settembre, si allunga: fra questi Finlandia, Australia, Canada e Portogallo.

Stiamo vivendo, in questo primo quarto di secolo, un momento particolare in cui vengono rimesse in discussione le regole di democrazia, di pace e di sicurezza che ci hanno guidato dalla Seconda guerra mondiale in poi. Oggi, con la guerra a Gaza, è in gioco la sopravvivenza di un popolo e nessuno di noi può permettersi di restare a guardare. 

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