Il Trattato di Maastricht ha trent’anni

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Gli anniversari sono strumenti per la memoria, come nel caso degli anniversari della storia dell’integrazione europea. Quest’anno ne abbiamo celebrati due di non poca importanza, anche se con poco rilievo, complice anche la pandemia che ha colpito duramente l’Europa.

Il 1° gennaio cadevano i vent’anni dalla prima circolazione della moneta comune, il 7 febbraio ricorrevano trent’anni dalla firma del Trattato di Maastricht, anche se per festeggiare la sua entrata in vigore si sarebbe dovuto aspettare il 1° novembre del 1993, dopo aver superato alcune prove referendarie, in particolare quella da brivido della Francia con un risposta positiva solo del 51%.

La lezione da trarre oggi da quell’esperienza deve fare i conti con il diverso contesto europeo di inizio anni ‘90 con la situazione di oggi, non sottovalutando le difficoltà che comporterebbe una riforma dei Trattati nella congiuntura politica attuale.

La data del 7 febbraio 1992 era stata preceduta da tre altre date importanti per la nascente Unione Europea, così ribattezzata dopo averla chiamata per quarant’anni con l’impegnativo – e forse più ambizioso –  nome di “Comunità europea”. 

Fu un periodo di cambiamenti importanti per il continente europeo: nel 1989 con l’abbattimento del Muro di Berlino, nel 1990 con la riunificazione tedesca e nel 1991 con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Furono anni di grandi speranze cui il Trattato di Maastricht rispose solo in parte, in particolare avviando concretamente il processo verso la moneta unica e la creazione di una cittadinanza europea che aspetta ancora di dare i frutti attesi.

A quel Trattato si arrivò con una faticosa Conferenza intergovernativa che non evitò deroghe, come richiesto in particolare da Regno Unito e Danimarca, segnando una frammentazione all’interno dell’UE con esiti diversi, il più traumatico consumatosi con la secessione britannica del 2020.

Oggi il contesto politico è diverso: ad affrontare un’eventuale riforma dei Trattati – quello di Lisbona è in vigore da una dozzina d’anni – siederebbero al tavolo negoziale il doppio dei Paesi dei primi anni ‘90, alcuni entrati da poco nell’UE e con profili politici e di vita democratica non proprio omogenei: basti pensare a Polonia e Ungheria e non solo.

La “Conferenza sul futuro dell’Europa” – da non confondere con una Conferenza intergovernativa, titolata a negoziare un nuovo Trattato – ha all’ordine del giorno uno spettro di temi molto ampio, ma non ha ricevuto dai “padroni del vapore”, che siedono nel Consiglio europeo dei Capi di Stato e di governo, un mandato per una riforma del Trattato esistente, anche se non è escluso che l’assemblea dei cittadini solleciti una tale iniziativa. Iniziativa che si troverebbe a dover fare i conti con un contesto politico molto contrastato e ricco di tensioni tra i Paesi UE e con procedure negoziali complesse che richiedono tempi lunghi, non solo per la firma di un nuovo Trattato ma più ancora per la sua entrata in vigore, come ci ha insegnato non solo la “via crucis” del Trattato di Maastricht, ma anche quella non meno faticosa del Trattato di Lisbona, attualmente in vigore.

Tutto questo mentre l’Unione è alle prese con emergenze difficili da governare, come nel caso delle pressioni militari alle sue frontiere e delle prospettive di crescita economica, più problematiche di quanto si pensava fino a poco tempo fa.

In questa situazione molte sono le voci che non si spingono oltre la richiesta di una più decisa applicazione del Trattato esistente, senza escludere che si lavori già a preparare le riforme necessarie, in particolare per la politica estera e di difesa comune. I gravi problemi che viviamo potrebbero essere occasione di decisioni più coraggiose che non quelle del passato.

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