Migranti ed Europa per bande

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Che questa Unione Europea sia poco unita è ormai un’evidenza, per i più pessimisti addirittura un destino inevitabile che la porterà alla disintegrazione, se non a qualcosa di peggio.

A voler ragionare con calma non è il caso di precipitare le cose, ma nemmeno di chiudere gli occhi sui movimenti sismici nella politica europea, provare a individuarne le faglie che l’attraversano e imparare rapidamente a ricostruire un edificio vecchio e pericolante.

Una faglia verticale che percorre da sempre questa Europa è quella che muove da nord verso sud, da Paesi economicamente più avanzati verso Paesi eredi di grandi tradizioni culturali, ma con un cronico ritardo di sviluppo.

Da qualche tempo arrivano da destra sinistri scricchiolii, lungo una faglia orizzontale che mette in tensione Paesi dell’Europa occidentale con quelli centro orientali, entrati nell’Unione Europea all’inizio di questo nuovo millennio, reduci dal lungo inverno sovietico.

Per la verità non sono i soli Paesi dell’UE ad aver sofferto, nel secolo scorso, le durezze della dittatura: ne sanno qualcosa anche Paesi del centro-sud dell’Europa, come la Germania, l’Italia e, fino in tempi recenti, la Grecia, la Spagna e il Portogallo. Ma con una differenza: che spesso a est questo ritorno alla vita democratica – peraltro ancora fragile e già minacciato – è stato accompagnato da forti rigurgiti di nazionalismi, spesso a tendenza xenofoba. Tendenze che, in misura minore, fanno oggi capolino un po’ ovunque nell’UE.

È su questo sfondo che ad aggravare faglie storiche si fa strada oggi la “banda dei quattro”, quella coalizzata nel “gruppo di Visegrad”, con Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca.

Protagoniste maggiori di questi movimenti tellurici a est sono senza dubbio la Polonia e l’Ungheria: entrambe alle prese con una demolizione in corso delle rispettive Costituzioni, con annessi diritti fondamentali, e alla testa della sacra alleanza del “gran rifiuto”: quelli che non ne vogliono sapere di accogliere nei loro Paesi una quota di migranti e profughi, argomentando che una tale decisione spetta alla loro sovranità nazionale e non a Bruxelles.

Per legittimare questo rifiuto Victor Orban, Primo ministro ungherese, non ha esitato a ricorrere, il 2 ottobre scorso, a un facile referendum con domanda taroccata che interpellava sul tema gli elettori ungheresi a sostegno delle politiche del governo ungherese.

Il risultato di una grande maggioranza a sostegno del governo pareva scontata, ma lo è stata solo in apparenza. Si è trattato di una vittoria di Pirro, annullata dal mancato raggiungimento del “quorum”, poiché ha votato meno del 40% degli aventi diritto. Una sconfitta per Orban che non vuole però rinunciare a porre, contro le regole del Trattato UE, il veto alla politica europea di ricollocazione dei migranti per alleviare in particolare la pressione migratoria esercitata su Italia e Grecia.

A Bruxelles si è tirato un sospiro di sollievo, senza tuttavia l’illusione che il problema dell’accoglienza dei migranti sia vicino a una soluzione. Che non ci sarà fino a quando i Paesi partner nell’UE non riscopriranno, con le buone o le cattive, gli obblighi di solidarietà reciproca.

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