Turchia e Medio Oriente

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Le recenti turbolenze politiche della Turchia, la serie di attentati che hanno fatto più di un centinaio di vittime, l’ambigua e tardiva partecipazione alla lotta contro il sedicente Stato islamico hanno riportato sotto i riflettori dell’attualità tutti gli interrogativi sul ruolo che tale Paese sta avendo nel contesto del Medio Oriente.

Il momento che ha segnato, se non un punto di partenza, certamente un’accelerazione dei cambiamenti in corso sono state le elezioni del giugno scorso. Dopo 13 anni, il Partito di ispirazione islamica e conservatore del Presidente Recep Erdogan, l’AKP, (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) ha perso la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, mandando in frantumi il sogno dello stesso Presidente di portare la Turchia verso una Repubblica presidenziale. Fatto nuovo dopo tanti anni e rivelatore del disagio e dei fermenti democratici della Turchia in questi ultimi tempi, è stato il successo raggiunto dal Partito filocurdo HDP (Partito democratico del Popolo), che, superando lo sbarramento del 10%, avrebbe portato in Parlamento circa 80 deputati. Una prospettiva inaccettabile per le ambizioni di potere del Presidente, che ha indetto nuove elezioni per il primo novembre prossimo con l’obiettivo di invertire i risultati del voto. Un obiettivo che oggi, per essere raggiunto, deve convincere l’elettorato della necessità di una forte stabilità politica che passi appunto attraverso il monopolio del potere da parte dell’AKP e la creazione di un sistema presidenziale.

La Turchia è un Paese di strategica importanza non solo sullo scacchiere mediorientale. È Paese della NATO e possiede uno degli eserciti meglio equipaggiati ed è ancora, anche se sembra oggi una prospettiva lontana, Paese candidato all’adesione all’Unione Europea. Ora, la strategia politica interna adottata in particolare dopo le elezioni di giugno da Erdogan si riflette anche in politica estera. Dopo l’attentato di Suruk, sul confine turco-siriano, il Presidente ha deciso infatti, dopo mesi di ambigui tentennamenti, di impegnarsi a contrastare, accanto alla coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, il terrorismo dell’ISIS, ma anche e soprattutto il “terrorismo” del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) con il quale, dopo anni di lotta, aveva iniziato, nel 2013, un fragile dialogo di pace. Il risultato è che la Turchia, con il pretesto o per timore di una rinnovata rivendicazione di indipendenza curda alle sue frontiere, e malgrado il ruolo importante avuto dai curdi finora nel contrasto all’ISIS, ha aperto un nuovo fronte di guerra all’interno di un contesto mediorientale già in fiamme e nel quale si affrontano interessi politici locali, regionali e internazionali.

In un momento storico così cruciale per la regione (ma non solo), con le guerre che stanno disgregando interi Stati, con un terrorismo fondamentalista che si espande sempre più e con flussi migratori inarrestabili verso l’Europa, la Turchia non sembra proprio giocare quel ruolo importante di mediazione, di dialogo e di cooperazione necessario per far fronte alle sfide epocali che si stanno consumando nella regione. A questo punto e in questo contesto appare importante anche il rapporto che si tesserà, se possibile, di nuovo fra Turchia e Unione Europea, soprattutto in termini di solidale cooperazione nell’accoglienza dei profughi e per il rispetto dei loro diritti. Una cooperazione che non si limiti a contingenti scambi economici ma che metta le basi di una politica di lungo respiro.

Per questo la Turchia ha senz’altro bisogno di una stabilità, ma di una stabilità che poggi essenzialmente sul rispetto dei cambiamenti che la società civile turca richiede da un po’ di tempo a questa parte. E di questo le urne parleranno agli inizi di novembre.

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