Unione Europea di fronte al suo incerto futuro

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Persa nella nebbia di questi tempi confusi di un mondo fuori controllo, l’Unione Europea è alla ricerca di un nuovo progetto per il suo futuro, a partire da una storia che fu feconda di promesse e approdata ad un presente politico frammentato e in movimento.

Il passato è quello della straordinaria avventura di riunificazione continentale che aveva dato speranza a un’Europa in macerie dopo le due tragiche guerre mondiali. Le prime Comunità europee degli anni ‘50 si erano allargate fino ai 27 Paesi di oggi, in attesa che un’altra decina ci raggiungano nei prossimi anni. 

Nei decenni scorsi si è consolidato il mercato unico, 20 Paesi si sono “federati” grazie all’adozione di una moneta unica, momenti di crisi economica e finanziaria sono stati superati e il nostro sistema di protezione sociale ha resistito nonostante le difficoltà: tutto questo grazie anche a quasi 80 anni di tregua, anche se purtroppo non di pace, visto quanto accaduto recentemente ai nostri immediati confini.

Da questa storia siamo usciti vivi ma indeboliti politicamente, con scarsa coesione economica e sociale, senza una politica estera e di difesa comuni e lontani da una convergenza fiscale, sola in grado di garantire politiche di solidarietà. Ha aggravato questa deriva la crescita dei movimenti nazional-populisti, cifra ormai di una rilevante parte di governi nazionali UE, in particolare con la ricostruzione di un “triangolo di Visegrad”, con Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia, freno ad ogni nuovo passo verso l’integrazione. Esiti elettorali solo in parte contrastati dalle recenti elezioni presidenziali in Irlanda, di valore prevalentemente simbolico, e dalle elezioni legislative in Olanda,  con la prospettiva di una complicata formazione del governo, in attesa di conoscere gli sbocchi della grave crisi politica in Francia.

In questa cacofonia europea si segnalano tre importanti voci italiane: quella del Presidente della Repubblica, dell’ex-presidente del Consiglio e dell’attuale. 

Di Sergio Mattarella, tenace e solitario  garante dell’affidabilità politica italiana nell’UE, abbiamo ascoltato l’appello, in occasione della riunione a Firenze del Consiglio direttivo della Banca centrale europea,  sull’urgenza di rafforzare la coesione europea, come già avvenuto con l’euro. 

Di Mario Draghi, dalla Spagna, è arrivata l’ennesima  sollecitazione a progredire con la necessaria flessibilità verso l’integrazione “con chi ci sta”, in nome di un “pragmatismo federale” nel quadro  dall’attuale Trattato di Lisbona, in particolare attraverso l’adozione di “cooperazioni rafforzate” con un invito a formare, anche al di fuori delle iniziative per la difesa, “coalizioni di volenterosi” per uscire dalla paralisi prodotta, tra l’altro, dal cappio del voto all’unanimità.

Voto all’unanimità che invece l’attuale presidente del Consiglio italiano ha ancora riaffermato come  una leva indispensabile per il suo “pragmatismo intergovernativo”, a salvaguardia dell’interesse prevalente della “Nazione”,  ostile a progressi significativi verso un’Unione federale, come apparso ancora chiaramente dalla imbarazzante ambiguità che ha segnato il suo incontro con il premier ungherese Viktor Orban a Roma nei giorni scorsi.

Un’ambiguità che permane nel governo italiano, su questo come su altro diviso al proprio interno, a proposito dei rapporti con l’amico Donald Trump, con un’oscillazione permanente tra Washington e Bruxelles, che corrode l’affidabilità politica dell’Italia di cui invece si fa garante, per quanto  possibile, il nostro Presidente della Repubblica.

Anche da chi prevarrà tra queste voci italiane dissonanti dipenderà il futuro dell’Unione Europea e del ruolo che potrà svolgervi l’Italia, uno dei suoi Paesi fondatori.  

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