Mancano due settimane alla scadenza fissata con arroganza imperiale da Donald Trump all’Unione Europea per un’intesa sulla percentuale di dazi previsti ad oggi per il commercio europeo con gli Stati Uniti d’America. Lo scorso 12 luglio, con una lettera che resterà negli annali dei rapporti transatlantici, non per la sua qualità letteraria e nemmeno per la struttura logica del testo, Trump ha annunciato che dal 1° agosto, in caso di mancato accordo tra le parti, tutte le produzioni UE dirette verso gli USA sarebbero state gravate di un dazio generale del 30%, mentre restano in vigore i preesistenti dazi del 50% su acciaio ed alluminio.
La stangata è stata annunciata senza troppi complimenti alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, responsabile per conto dei 27 Paesi membri della politica commerciale comunitaria. Responsabile non significa che la Commissione possa decidere con un’autonomia sovrana, ma è a suo carico il negoziato e la proposta da sottoporre ai governi nazionali ai quali spetta approvarla a maggioranza.
E’ immediatamente partito di qui il confronto tra i governi dei Paesi UE, ciascuno esposto in misura diversa al diktat USA, non solo in considerazione dei propri diversificati interessi economici ma anche per il proprio posizionamento politico nei confronti di un alleato tutt’altro che affidabile.
Due Paesi in particolare sembrano ancora voler fare fiducia all’imperatore USA: la Germania, per ragioni prevalentemente economiche, viste le dimensioni del suo interscambio commerciale con gli USA; l’Italia perché anch’essa interessata a un forte volume di scambi con una bilancia commerciale a lei favorevole, ma anche perché politicamente ancora convinta di poter far valere una sua presunta relazione privilegiata con Trump. Tutto questo nonostante che al momento non vi siano segnali che lo confermino, salvo l’insidiosa speranza di poter godere di un eventuale trattamento di favore rispetto agli altri partner europei, con tutte le conseguenze destabilizzanti che ne conseguirebbero per l’Unione.
Si muovono su un fronte opposto Paesi meno esposti economicamente, ma politicamente determinati ad affrontare la contesa, anche a costo di aggravare le tensioni e l’esito dello scontro in corso: si segnalano tra questi in particolare la Francia e la Spagna, insieme con Paesi del centro-nord come Austria, Belgio e Danimarca e altri. Senza dimenticare che, dietro le quinte del conflitto commerciale, pesa non poco quello dei costi della spesa militare, usati anch’essi come una clava da Trump per indebolire e dividere le resistenze europee.
In questo contesto la Commissione europea, responsabile del negoziato, ha scelto di resistere ancora sulla strada del dialogo in considerazione dell’impatto devastante che potrebbe derivare da una guerra commerciale tra i due principali giganti economici del mondo, cercando di operare in due direzioni. All’interno dell’Unione, alla ricerca di un consenso maggioritario tra i 27 governi per evitare tentazioni di accordi bilaterali e, all’esterno, intensificando i suoi sforzi negoziali con altre importanti aree del mondo per assicurarsi nuovi importanti mercati, come nel caso dei mercati asiatici, come quello appena concluso con l’Indonesia, e di quello latino-americano, con l’accordo in corso di adozione con il Mercosur, area che associa Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay.
Né è abbandonata, con tutte le cautele del caso, l’opzione di una ripresa di dialogo commerciale con la Cina, mentre prende quota il dialogo commerciale con l’India, a riprova che gli Stati Uniti non sono soli al mondo, salvo che finiscano per diventarlo un giorno sulla strada della prepotenza politica a servizio della loro economia e delle loro finanze pubbliche in difficoltà.