Cadono droni nei cieli d’Europa, salgono toni di guerra nel Parlamento europeo e nella sede della NATO a Bruxelles, indebolendo le speranze di pace per chi è vittima della guerra in Europa e chi potrebbe rischiare di diventarlo.
La crescente tensione tra Unione Europea e NATO con la Russia di Putin ha provocato parole pesanti nell’aula di Strasburgo, a cominciare dal discorso sullo stato dell’Unione della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.
Verrebbe da dire che, lo scorso 10 settembre al Parlamento europeo, abbiamo assistito a un discorso sullo stato precario di un’Unione senza Stato da parte di una candidata a “comandante in capo” senza esercito, che non per questo ha evitato linguaggi guerrieri, a tratti con parole riprese da Donald Trump quando invita alla “lotta”. Parole e atteggiamenti non proprio familiari per Ursula quando invece si è arresa senza onore ai dazi di Trump, concedendo “regali” che non erano nella sua disponibilità, come la promessa di investimenti e acquisti miliardari di energia in favore degli USA.
Che la situazione sul terreno in Ucraina sia drammatica e il clima politico nell’UE non sia rassicurante è un’evidenza, meno evidente se queste siano le parole giuste, pronunciate dalla persona giusta, per un momento di tale gravità.
La parola della presidente della Commissione europea ha un peso importante che le deriva dall’Istituzione che presiede , cui spettano responsabilità nella proposta di azioni, nella gestione delle politiche comuni e nel controllo del rispetto dei Trattati, a cominciare dai loro primi articoli sul contributo dell’Unione alla promozione della pace.
Se non del tutto le parole, certamente il tono è stato sopra le righe, prospettando azioni che sarebbero in realtà dipese dalle decisioni dei governi e, molto meno e senza vincoli, dalle valutazioni del Parlamento europeo. Azioni cui erano destinate risorse finanziarie che dipendono dall’adozione del bilancio comunitario, annuale e settennale, anch’esso nella disponibilità delle decisioni delle capitali e, in questo caso, sottoposto all’approvazione obbligatoria del Parlamento europeo, cui spetta la firma finale del bilancio UE.
Ma il Trattato UE di Lisbona, attualmente in vigore, dopo aver stabilito all’art. 3 che “l’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli” non affida alla stessa Unione una responsabilità sovrana in materia di politica estera e di difesa, indicando un fine privato di mezzi proporzionati al suo raggiungimento.
Come dire che il difetto di fondo è nell’incompiutezza del percorso federale dell’Unione, da tempo bloccato da risorgenti sovranismi, ed è di qui che bisogna partire per valutare il comportamento dell’Unione dove ormai da anni si parla senza risultati di un’auspicata “autonomia strategica europea” in materia di sicurezza e difesa, delegata fin dal 1949 alla NATO e al suo azionista di maggioranza, gli USA.
E questo al punto di aver avuto bisogno in Europa, per rispondere all’aggressione russa, di ricorrere ad una faticosa creazione di una “coalizione di volenterosi”, senza alcuni Paesi UE, ma con altri venuti ad aggregarsi, come in particolare il Regno Unito.
Il risultato, si spera provvisorio, è quello di un intreccio confuso di attori europei diversi lontani mille miglia dal parlare, come sarebbe necessario, ad una voce sola, mentre tanto sulla scena si muove con gli stivali da cowboy un personaggio inaffidabile come Donald Trump.
Sarebbe il momento di abbassare i toni e alzare la qualità della coesione comunitaria e prendere sul serio il monito di Maurice Schuman nella sua Dichiarazione del maggio 1950, mai così attuale come oggi: “L’Europa non è stata fatta e abbiamo avuto la guerra”.
Sarebbe bene se ne ricordasse anche la presidente del Consiglio italiano, che di Europa poca ne ha fatta e molta ne ha minata, chiarendo se sul versante della pace è una “volenterosa” europea, se non nella coalizione promossa da Macron e Starmer, almeno nel Consiglio europeo, dove siede il suo collega e amico Viktor Orban e al Parlamento europeo dove i suoi parlamentari, in attesa di capire da che parte sta la loro “capa”, se più vicina a Bruxelles o a Washington, stanno diventando professionisti nell’astenersi al momento del voto in Europa sul tema della pace.