UNIONE EUROPEA E RIARMO
Pubblichiamo la traccia dell’intervento di Franco Chittolina al Convegno “Organizzare la pace” (Cuneo, 18.9.2025), un contributo di APICEUROPA al dibattito in corso al nostro interno su un tema sul quale ci proponiamo, entro questo mese, di tornare a riflettere in un incontro pubblico.
1. IL CONTESTO
Un tema complesso da inserire in una dimensione spazio-temporale per chiarire almeno tre parole chiave al plurale: guerre, paci ed Europe. Le prime, guerre, una costante che ha attraversato tutta la storia del nostro continente (con frequenti proiezioni al di fuori); le paci, frequenti e provvisorie, spesso all’origine di nuovi conflitti; infine, le Europe variamente aggregatesi sul continente, imperiali o confederate o a vocazione federale.
Concentriamoci oggi su quella parte di Europa che chiamiamo Unione Europea, alle prese con due guerre ai suoi confini, Ucraina e Palestina, e ad altri conflitti latenti non lontano, come Siria e Iran per citare solo due focolai ad alto rischio nel Medio oriente.
In tema di riarmo in Europa stringiamo ulteriormente l’obiettivo sulla guerra mossa dalla Russia all’Ucraina e proviamo ad identificare alcuni degli attori chiamati a cercare soluzioni di pace: oltre i due contendenti, i loro alleati, in particolare nel campo occidentale l’Alleanza atlantica (NATO), l’Unione Europea e i suoi Paesi membri, coinvolti in dinamiche di riarmo.
Della NATO, creata nel 1949 con un anticipo di cinque anni rispetto alla prima Comunità europea, conosciamo l’obiettivo di portare la spesa militare dei Paesi alleati al 5% entro il 2035 rispetto alla media attuale del 2,76% (con l’Italia al 2,01%, pari nel 2025 a 48,8 miliardi di dollari contro i 35,3 del 2024): molto più alta la spesa militare in Polonia (4,48% nei Paesi baltici e in Norvegia).
Dell’Unione Europea conosciamo la proposta “ReArm Europe”, ribattezzata precipitosamente “Preparati per il 2030”, una data che coincide con insistenti voci su un rischio in quell’anno di nuove tensioni con la Russia. L’obiettivo è di mobilitare 800 miliardi di euro in “risorse da spendere in settori legati alla difesa”, ripartiti in due categorie: 150 miliardi nel programma europeo “Safe” (Security Action for Europe) da reperire con obbligazioni sui mercati da parte della Commissione per acquisti congiunti in materia di armamenti (ad oggi in cantiere senza consultazione del Parlamento europeo, con procedura di infrazione per la Commissione davanti alla Corte di giustizia): a queste risorse hanno chiesto di accedere ad oggi (30/8) 19 Paesi, l’Italia con una dotazione di 14,9 miliardi di euro. Gli altri 650 miliardi dovrebbero pervenire dai bilanci nazionali cui sarebbe consentita una deroga sui vincoli del Patto di stabilità, non consentita invece per il welfare e le politiche ambientali.
Questa articolazione della spesa militare, oltre che porre problemi giuridici sulle competenze in merito della Commissione, merita qualche considerazione quanto alla dimensione europea dell’operazione e sugli squilibri indotti tra le difese nazionali. Supposto che siano necessarie queste dimensioni finanziarie per il riarmo, queste saranno diverse a seconda delle capacità fiscali dei singoli Paesi: di alcuni minori, ma con frontiere a più temuto rischio, spinte a squilibrare i bilanci nazionali e di quelli più importanti, come la Polonia e la Germania, che possono permettersi di annunciare con Merz che nel 2030 avranno il più forte esercito d’Europa, magari non solo di volontari.
In altre parole, in un’Unione Europea priva di una politica fiscale condivisa e senza uno straccio di politica estera e di difesa comune il rafforzamento militare creerà ulteriori divaricazioni non solo economiche, ma anche politiche, tra i Paesi membri UE aggravandone la già precaria coesione sociale.
2. ORGANIZZARE LA PACE
(Per non limitarci ad invocare la pace)
Dopo aver ricordato alcuni dati utili per delineare un perimetro del riarmo in corso nell’Unione Europea si tratta adesso di cercare una risposta a come “organizzare la pace” in tale contesto.
Realisticamente con una “politica di riduzione del danno”: cominciando dai danni già fatti nel tempo con obiettivo di evitarne in futuro.
Una strada da imboccare subito, senza rinunciare a raggiungere “una pace futura, giusta e duratura” , e non solo in Europa, potrebbe essere quella di una “politica di riduzione del dan no”: ricordando i molti danni già fatti alla pace nel tempo con l’obiettivo di evitarne altri in futuro.
La lista dei danni fatti alla pace è lunga: dalle guerre permanenti in Europa alla corsa costante agli armamenti, in particolare nucleari; dalla incapacità europea di dotarsi nel 1954 di una Comunità europea della difesa, per non essere vassalla della NATO all’errore di cedere il passo alla NATO nelle dinamiche dell’allargamento verso est (adesione alla NATO nel 1999 di Polonia, Repubblica ceca e Ungheria) fino a Programmi di sostegno militare all’Ucraina senza una compiuta responsabilità in materia di politica estera e di difesa comune.
E questo è uno dei problemi per organizzare la pace: se la protezione europea va rafforzata, dopo decenni di delega di questa responsabilità alla NATO, in realtà al suo azionista di maggioranza gli USA, questo non può avvenire senza una “difesa federale” in un’Unione federale, oggi ancora molto lontana e difficile da costruire in questa stagione di nazionalismi prevalenti, non solo in Europa.
Per non limitarci a piangere sul latte versato cerchiamo adesso di evitare danni futuri, consapevoli che la politica è l’arte del possibile che l’etica deve spingere verso il coraggio dell’impossibile. Cominciando con una valutazione realista dei rischi che corriamo per valutare la proporzionalità della deterrenza necessaria per garantire sicurezza, senza alimentare paure e scadenze apocalittiche, utili soprattutto per foraggiare l’industria delle armi, intesa come leva miracolosa di sviluppo economico. Vale per il contenimento degli armamenti tradizionali, ma vale anche per una crescente mobilitazione in favore del controllo e della riduzione delle armi nucleari, mentre ne sta aumentando la produzione e i Paesi UE restano prigionieri dei vincoli della NATO in materia.
E per evitare danni futuri sulla coesione sociale dell’UE, se sulla protezione europea è necessario investire, questa non può essere limitata alle frontiere esterne, ma deve anche farsi carico della protezione quotidiana dei suoi cittadini all’interno dell’Unione. Difesa europea e welfare europeo non possono essere disgiunti, con il secondo che paga le spese del primi, ma anche su questo versante l’Unione non dispone di poteri reali, se non di indirizzo, rimanendo il welfare di stretta competenza nazionale con le conseguenze che non è difficile immaginare.
Ed è qui che va trovata la vera risposta a come “organizzare la pace”, declinando insieme pace e giustizia: i prezzi da pagare per costruire la pace non devono essere pagati dalla decostruzione della giustizia, non solo del diritto internazionale, il Terzo assente di Bobbio, allegramente calpestato da molti (comprese mitiche democrazie) ma anche dei diritti fondamentali delle persone per una vita dignitosa, calpestata dalle povertà crescenti nella nostra casa comune con restrizioni della libertà, quella di cui avvalerci nel confronto su tema pace e guerra e difenderla da rischi futuri.
Questo ci porta a due ultime considerazioni sul ruolo decisivo della democrazia per organizzare la pace, riprendendo l’insegnamento di Norberto Bobbio, sulla scia de “La pace perpetua” di Kant, senza dimenticare due tra i Padri fondatori dell’Unione Europea, Altiero Spinelli e il nostro Luigi Einaudi.
La democrazia è pilastro fondamentale per la pace all’interno di ciascun Stato, dove il tema pace e guerra va affrontato con trasparenza e civile confronto, non occultando dati sui reali costi, diretti ed indiretti, della spesa militare e sulla sua destinazione, per consentire la formazione di un argomentato consenso tra i cittadini sulle politiche da intraprendere. Questo nella convinzione che dove c’è reale democrazia c’è meno spazio per le guerre.
Democrazia che è anche un pilastro fondamentale per pacifiche relazioni tra gli Stati, a cominciare da questa Unione Europea descritta da Bobbio come una “democrazia tra le nazioni”, ma oggi indebolita da populismi e sovranismi che hanno dimenticato la messa in guardia di Einaudi sul “mito funesto della sovranità nazionale”, all’origine delle guerre.
Vale anche oggi più che mai per l’Unione Europea il richiamo dell’art. 11 della Costituzione italiana che non si limita al ripudio della guerra, ma nella sua seconda parte chiede alla Repubblica di consentire “alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni”.
Purtroppo, a ben guardare, lo abbiamo fatto troppo con la NATO e ancora troppo poco con l’Unione Europea, dimenticando il monito di Maurice Schuman nella sua Dichiarazione del 1950: “Non abbiamo fatto l’Europa, abbiamo avuto la guerra”.