“Francia, Italia, Europa. Il nostro futuro”: l’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla Sorbona

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Vi presentiamo un estratto del discorso pronunciato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel corso del suo intervento alla Sorbona di Parigi, durante la visita di stato in Francia del 5 luglio 2021.

Madame la Ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation,

Monsieur le Recteur de la région académique d’Île-de-France, Recteur de l’académie de Paris, Chancelier des universités de Paris et d’Île-de-France,

Messieurs les Présidents de Sorbonne Université et de la Sorbonne Nouvelle,

Madame la Présidente de l’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne,

Autorités,

Chers Professeurs,

Chères étudiantes, chers étudiants,

« La géographie, l’histoire, l’économie, la culture, la religion, font que les territoires, échanges, idées et croyances de l’Italie et les nôtres sont à ce point rapprochés et mêlés qu’il n’y a point de règlement général concernant la Péninsule qui n’affecte profondément la France et puisse, par conséquent, constituer une base d’avenir si nous n’y participons pas. Nous n’hésitons pas à ajouter que ce voisinage étroit, et dans une certaine mesure, cette interdépendance des deux grands peuples latins demeurent dans la tourmente actuelle de l’humanité et malgré tous les griefs du présent, des éléments sur lesquels la raison et l’espoir de l’Europe ne renoncent pas à se poser » affirma Charles De Gaulle dans une allocution radiodiffusée depuis Alger, le 27 juillet 1943, deux jours après la chute du fascisme en Italie.

Permettez moi, maintenant, de continuer en italien.

Grazie per l’opportunità che mi è data di prendere la parola in una sede così prestigiosa e carica di storia.

Un’istituzione accademica fra le più antiche del nostro Continente, che ci ricorda come le radici dell’unità europea siano risalenti nel tempo: già mille anni fa, studenti e professori di Parigi, Bologna o Salamanca condividevano gli studi, consapevoli di come il diritto, la filosofia, la teologia o la medicina fossero un patrimonio comune nella nostra civiltà.

Un’istituzione che, nel corso dei secoli, ha contribuito in misura significativa alla elaborazione e allo sviluppo di quelle idee e di quei concetti che sono divenuti basi fondanti nella società europea contemporanea.

Un modo di essere e di pensare nel quale la persona è posta al centro di una fitta rete di diritti e tutele che garantiscono il suo libero esprimersi, il suo svilupparsi come singolo e come comunità.

Dal continente europeo, dalla cultura profonda del popolo europeo, sono venuti, in epoca moderna, messaggi fondamentali, che hanno plasmato il vivere dell’umanità.

Libertà, Eguaglianza, Fraternità recita il motto della Repubblica Francese, a interpretazione di un’aspirazione che avrebbe accomunato i popoli del mondo.

Ancora, da fucina di guerre mondiali l’Europa, dopo il 1945, ha saputo costruire un’oasi di pace e di cooperazione, contribuendo alla stabilità e allo sviluppo internazionale.

Il progredire delle buone cause è, abitualmente, lento ed è arduo il cammino per far prevalere i principi del diritto nei rapporti internazionali. Eppure è stato possibile. E, se un rammarico può essere espresso, questo consiste semmai, nell’alternarsi, nel corso dei decenni, di negligenza e di vigore nell’impegno teso ad affermare con tenacia il rispetto dei diritti della persona e delle comunità come principio inviolabile all’interno e all’esterno di ogni singolo Stato membro della comunità internazionale.

Proviamo ora a chiederci: cosa muove la storia del progresso dell’umanità? Il conflitto o la cooperazione?

Nella limpida risposta a questo interrogativo, data, nel Secondo dopoguerra, da statisti di grande saggezza – che si erano impegnati nella corale battaglia per la sconfitta del nazifascismo – si iscrive l’accaduto nel nostro continente, dapprima con l’iniziativa dei Sei fondatori e, via via – rispondendo agli appuntamenti proposti dalla storia – sino alla attuale configurazione a ventisette Paesi.

Se la storia diviene sempre più universale – prendendo atto dell’unità del genere umano – non possiamo pensare che a scriverla possano essere i canoni obsoleti del “sacro egoismo” delle ottocentesche rivoluzioni nazionali.

Nel contesto attuale si sente talvolta dire che vi sono visioni diverse – talvolta opposte ma che si pretendono parimenti plausibili – di Unione europea.

Al netto della doverosa disponibilità a comprendere i diversi punti di vista e a rendersi conto della fatica di ogni costruzione, questa tesi rischia di mettere in ombra le autentiche finalità dell’esercizio di unità europea che sono, invece, inequivocabili.

Quando si parla del percorso dell’Unione e dei suoi successi – dagli albori della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio – si invocano, normalmente, le espressioni libertà e prosperità.

Quest’ultima è condizione importante di quella coesione sociale che rende concreti i diritti e favorisce l’effettivo esercizio delle libertà ma, da sola, non le incarna e non le esaurisce.

Il patrimonio di valori racchiusi nell’ideale europeistico – ed espressi nella sua esperienza – ha inoltre consentito un ancoraggio sicuro alle democrazie dei Paesi dell’Europa centro-orientale dopo il 1989, inserendole in un contesto multilaterale che ha assicurato loro stabilità. Al tempo stesso accrescendo il valore storico e le prospettive dell’Unione.

Si tratta di un capitale che non può essere depauperato né compromesso. Pena la sua dissipazione, può essere soltanto incrementato.

L’accrescimento della comune, condivisa, sovranità europea è l’obiettivo: per esso occorre lavorare. Del resto è espressamente riconosciuta come finalità dai Trattati.

La dialettica politica tipica di ciascuna comunità organizzata in Stato non può essere motivo o pretesto per indebolire o per porre in discussione i caratteri fondanti dell’Unione.

Si tratta di elementi inscindibili fra loro: non vi può essere democrazia senza libertà; libertà senza democrazia; libertà e democrazia senza giustizia sociale che consente il perseguimento della prosperità.

Liberté, Egalité, Fraternité: sono elementi indivisibili per tutta l’umanità.

Di questo vogliamo e possiamo essere orgogliosi come europei.

Le solenni decisioni assunte da ciascun popolo al momento dell’adesione al progetto non possono essere contraddette se non a prezzo della drastica decisione dell’abbandono.

Occorre chiarezza.

Ciascun processo in itinere è soggetto a pause, rallentamenti, incertezze, compromessi. Occorre tuttavia essere sempre ben consapevoli del costo che ciascuno di questi intralci comporta e delle loro conseguenze negative sui destini dei popoli dell’Unione.

Pensiamo alla debolezza di una politica di sicurezza che scontiamo da troppo tempo. Pensiamo all’abbandono del Trattato della Costituzione per l’Europa, approvato dalla Convenzione presieduta dal presidente Giscard d’Estaing, abbandono che ha condotto all’accomodamento non esaltante del Trattato di Lisbona.

Affrontare problemi sempre più complessi richiede strumenti istituzionali adeguati. Quando ci si è accorti che l’Unione non li possedeva in misura soddisfacente, le fragilità, provocate dalla mancanza di coraggio in anni precedenti, sono state superate soltanto grazie a un supplemento una tantum di volontà politicaÈ stato il caso delle iniziative, sul piano sanitario e su quello della ripresa economica, che l’Unione ha saputo recentemente assumere per contrastare il Covid19 e i suoi gravi effetti.

La politica del caso per caso però non basta.

Occorre sapersi cimentare con i nodi che ostacolano il pieno dispiegarsi delle potenzialità dell’Europa unita.

René Pleven all’Assemblée Nationale – in occasione della ratifica dei Trattati di Roma – prendeva posizione contro un atteggiamento che definiva frutto della psicologia da linea Maginot che, ampiamente “condannata sul piano militare non avrebbe risultati più fecondi sul piano economico”, per aggiungere: “che si tratti dell’agricoltura, dell’energia, dei trasporti, della moneta, del consolidamento del progresso sociale, nessuna soluzione nazionale è più possibile nel solo quadro nazionale…L’Europa non è per noi non so quale mania da visionari alla quale sacrificheremo gli interessi del paese. È un adattamento necessario a condizioni nuove, a una realtà economica e politica in evoluzione”. Era il 9 luglio 1957, ben oltre mezzo secolo fa.

Vorrei dare voce a un secondo esponente politico in quel dibattito, Christian Pineau, ministro degli Esteri, che così si esprimeva: “Il Trattato… ci permette di conservare le nostre potenzialità nella competizione mondiale e di rafforzare le posizioni delle democrazie occidentali la cui debolezza, causata anzitutto dalle loro divisioni, è risultata evidente nei mesi scorsi. Il trattato permette di stabilire su basi durature l’intesa franco-tedesca della quale nessuno qui ha contestato la necessità di creare con la Germania e il mondo occidentale dei legami indissolubili… Non vi domandiamo –aggiungeva -, ratificando i trattati…di mettere un punto finale alla costruzione dell’Europa, al contrario. Non siamo ancora che all’inizio della nostra azione. Non penseremo di averla portata a termine fino a quando resterà un paese libero d’Europa fuori della nostra Comunità’’. E concludeva che il processo di integrazione va “nel senso della storia”.

Difficile non riscontrare oggi la piena attualità di questa posizione.

La scelta europeista della Francia, notava in quella occasione Valery Giscard d’Estaing, annunciando il suo voto favorevole, corrisponde anche all’avvio di una stagione di modernizzazione del Paese. Una tesi che, simmetricamente, sosteneva – per quanto attiene all’Italia – il ministro degli Affari esteri, Giuseppe Pella, alla Camera dei Deputati di Roma.

Oggi sono le sfide del mondo globale a esigere, nuovamente, una presenza europea all’altezza delle sue responsabilità.

Diversamente, la pace, le libertà, i diritti, la prosperità, potrebbero divenire in futuro, anche per noi europei, un ricordo.

Nel costante intersecarsi della storia dei nostri due Paesi – e nel contributo che essi hanno dato all’Europa e al mondo – queste idee, questo modo di concepire il rapporto fra cittadini e Stato, sono andati gradualmente consolidandosi.

È sulla base di queste riflessioni – e grazie al bagaglio straordinario di sensibilità e valori che animi consapevoli e coraggiosi avevano saputo conservare anche nel profondo abisso dei conflitti mondiali – che si giunse, nell’immediato dopoguerra, alla decisione di unire e non più dividere, di mettere in comune, piuttosto che di rifugiarsi nei propri confini, di aprirsi alla solidarietà, piuttosto che rimanere imbrigliati nella contrapposizione.

La storia della nascita della Comunità del Carbone e dell’Acciaio e del ruolo che Schuman, Adenauer, De Gasperi, Spaak svolsero, con il conforto del sapiente impulso di Jean Monnet e di altre figure lungimiranti, fa ormai parte del bagaglio inalienabile dei popoli europei e dovrebbe, a ogni generazione, essere compresa e meditata.

Non possiamo infatti consentire che prevalga l’oblio, che si possa tornare indietro e che quel grido, “mai più guerra”, risuonato così forte all’indomani del secondo conflitto mondiale, possa essere posto in sordina!

In questi decenni abbiamo avuto in proposito – e tuttora abbiamo – tristi e drammatiche esperienze sull’uscio di casa, nel nostro stesso continente – e nell’immediato “cortile di casa” – il Mediterraneo!

L’Unione, filiazione diretta e coerente di quella prima Comunità, rappresenta quanto di più significativo la coscienza europea ha saputo costruire per allontanare lo spettro del conflitto, e garantire anzitutto ai suoi cittadini – ripeto – un periodo di pace e prosperità collettiva di cui mai prima, nella nostra storia, avevamo potuto godere.

Il percorso di integrazione ha infatti introdotto stabilmente e fatto acquisire nell’animo degli europei il concetto di solidarietà fra nazioni, Stati, popoli diversi, impegnati nel riconoscere i caratteri fondanti il demos europeo, motore e risultato – al tempo stesso – dello sforzo di integrazione.

Trascorsi settantuno anni dalla dichiarazione Schuman, sono gli eventi successivi e particolarmente gli avvenimenti di questo periodo a confermarci – ben al di là di ogni dubbio – quanto sia stata lungimirante la scelta dei padri fondatori.

La pandemia che ha colpito violentemente l’intero pianeta ha reso ancor più evidente la fragilità dei singoli Paesi – anche di quelli europei – stretti fra esigenze di difesa sanitaria delle proprie popolazioni, salvaguardia dell’economia e mantenimento di quella socialità indispensabile in molti settori, primo fra tutti quello dell’istruzione che, così tanto ha sofferto in questo periodo.

In un contesto così difficile, segnato in maniera drammatica, indelebile da una scia di lutti che ancora pesano sulle nostre comunità, la solidarietà fra Paesi e istituzioni europee ha rappresentato un punto di riferimento e di guida che ci ha consentito di tracciare insieme una via di uscita dalla crisi.

È nei momenti di maggiore incertezza che occorre avere il coraggio di compiere passi in avanti.

La Commissione Europea ha saputo assumersi questa responsabilità. Ancora una volta, come all’alba del percorso di integrazione, coraggio e solidarietà hanno permesso il prevalere delle ragioni della speranza contro ogni visione angusta di chiusura, per costruire il nostro domani.

L’azione della Commissione è stata affiancata, con il medesimo slancio, da quella del Parlamento Europeo, che ha fatto sentire la sua voce autorevole, espressione del dibattito democratico che sempre più contraddistingue la vita dell’Unione.

Anche al livello degli Stati membri la solidarietà si è manifestata in maniera spontanea e immediata, con gesti che sono già entrati a far parte della nostra memoria collettiva.

Alla solidarietà bilaterale hanno fatto seguito coraggiose decisioni del Consiglio Europeo che hanno completato il quadro della risposta collettiva alla pandemia.

Una risposta che è risultata essere ampia, articolata, consistente e che ha accompagnato gli sforzi che, sul piano nazionale, ciascuno Stato membro sta adottando, esaltando così il canone della sussidiarietà, autentica pietra angolare del funzionamento dell’Unione.

Solidarietà e responsabilità si sono così confermati come gli elementi caratterizzanti l’avventura europea.

È cresciuta una nuova consapevolezza, che supera e azzera improvvidi e modesti diversivi di contrapposizioni all’interno dell’Unione tra gruppi di Paesi, talvolta indicati con appellativi davvero fantasiosi.

Il Consiglio, rappresentativo degli Stati membri ha così approvato un “pacchetto” che si pone nell’alveo di una crescita istituzionale che, partendo dalla moneta unica, passa per l’unione bancaria e giunge – adesso – al primo concreto esempio di una politica fiscale comune capace di contrastare la crisi.

L’obiettivo che ci attende è quello di consegnare alla prossima generazione una Europa più coesa, lungimirante e pienamente in grado di far sentire nel mondo la sua voce; e questo dipenderà anche dal modo con cui ogni singolo Paese metterà in opera i propri piani nazionali.

Non possiamo fallire la sfida di trasformare la crisi in motore di un nuovo sviluppo più qualificato e più equo, che rilanci il ruolo dell’Unione Europea come moltiplicatore della propria piattaforma di valori e come vettore di inclusione.

Il prezzo della nostra incapacità verrebbe scontato dalle prossime generazioni.

Non deve accadere!

Non può accadere che si smarrisca una opportunità di crescita collettiva, che renda l’Unione più vicina ai suoi cittadini e più autorevole sul piano internazionale, evitando il rischio di divenire marginale spettatrice degli eventi.

Un’Europa capace di tracciare – insieme ai popoli degli altri continenti – nuove strade e contribuire a scrivere le regole su grandi temi come il cambiamento climatico o la rivoluzione digitale, adottando criteri rigorosi e partecipando da protagonista alla definizione di normative coerenti con i valori di crescita umana globale, rispettosi delle culture di ciascuno.

I popoli europei ne sono ampiamente convinti. Occorre che ne prendano atto le autorità politiche e che agiscano di conseguenza.

Dal punto di vista economico, grandi passi sono stati fatti. L’emissione di debito comune consentirà di affiancare alla moneta unica, un “safe asset” europeo che favorirà la diffusione dell’Euro quale moneta privilegiata degli scambi e ne aumenterà il ruolo internazionale come valuta di riserva.

Il problema del debito che verrà emesso per sostenere la ripresa non costituisce certamente questione secondaria. E vanno ascoltati coloro che ammoniscono sulle conseguenze che un tale fardello potrebbe avere per la prossima generazione.

Auspichiamo che – nel segno di un rafforzamento dell’Unione – il concetto di politica fiscale europea si sviluppi e si consolidi: non certo per trasformarci in una “unione del debito” ma per affiancare alla politica monetaria sovranazionale, gestita dalla Banca Centrale Europea, uno strumento altrettanto efficace per consolidare la crescita e ridurre le diseguaglianze tra i Paesi e al loro interno; facendo in tal modo accrescere il livello e la qualità dell’economia europea.

Sotto altri profili dobbiamo fare di più.

La politica migratoria rimane un vulnus recato alla coscienza europea. Alla pandemia abbiamo saputo dare una risposta comune, alla crisi economica altrettanto.

Alle migrazioni, ovvero al tema che in grande misura oggi interpella i nostri valori, al tema che più di altri mette in gioco la nostra capacità geopolitica e la nostra visione del mondo, non siamo ancora riusciti a dare una risposta adeguata, efficace e comune.

I flussi migratori vanno regolati e governati, affinché siano rispettosi delle comunità di accoglienza e dei migranti, cancellando l’odioso traffico che criminali senza scrupoli hanno imbastito sulla loro pelle.

La pressione che avvertiamo – in tutto il mondo e non soltanto alle frontiere d’Europa – è il risultato delle grandi differenze nella distribuzione del benessere tra i continenti, dell’ampia diversità dei tassi demografici, dell’impatto dei cambiamenti climatici; ma è anche il prodotto di decenni di omissioni, conflitti, diseguaglianze.

In una frase: del mondo che abbiamo contribuito come europei a plasmare e del quale rechiamo ampia responsabilità.

Donne, bambini, uomini in fuga, difficilmente possono essere individuati come un nemico. Già all’epoca della Seconda guerra mondiale l’indifferenza, se non la aperta ostilità verso i profughi che bussavano alle frontiere, caratterizzò una stagione che sarebbe stata segnata da crimini efferati, dei quali l’umanità non deve perdere il ricordo.

Da lì nacque la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, con validità, appunto, universale. Essa chiede a tutti i protagonisti della vita internazionale di rispettarli e, prima di essere rigorosi nel reclamarne il rispetto da parte degli altri Stati, di onorarne per primi i principi, a partire dai diritti dei migranti.

Dotarsi di una politica dell’immigrazione e dell’asilo all’altezza dei valori che sono alla base del progetto di integrazione europea costituisce un obiettivo primario per la stabilità e per la stessa coesione dell’Unione oltre che per poterci confrontare con i Paesi della regione in maniera credibile.

Se vogliamo che questa nostra Europa continui ad assicurare prosperità e benessere dobbiamo provvederci di una strategia dell’accoglienza – sostenibile ma concreta – in sintonia con le complesse sfide dell’oggi.

Abbiamo bisogno di una politica dell’immigrazione che proietti stabilità intorno a noi, che contribuisca a riassorbire le tensioni e a dare una spinta allo sviluppo dei nostri vicini, in particolare per quanto riguarda il Continente africano, che già da tempo dovrebbe essere visto – prima di ogni altra considerazione – come un partner per l’Unione.

In questo senso, la gestione delle migrazioni deve divenire parte integrante dell’azione esterna dell’Unione.

Sotto ogni profilo e su più versanti non è da soli che possiamo pensare di arrestare l’instabilità che ha ormai raggiunto praticamente l’intero arco dei confini europei! Tutto intorno all’Europa.

L’Unione deve essere in grado di contrapporre a questo scenario la forza dei suoi valori e dei suoi ideali.

Deve saper proiettare equilibrio, tolleranza, benessere, al di là dei propri confini. Deve, concretamente, porsi l’obiettivo di completare il percorso di integrazione continentale con i Paesi dei Balcani Occidentali e di proseguire le politiche di partenariato con i popoli dell’altra sponda del Mediterraneo.

Deve saper agire con tutta la propria energia per affermare le ragioni della pace nel mutuo rispetto, la ferma convinzione della supremazia del diritto e del metodo multilaterale, la sua vocazione di armonia nella comunità internazionale.

Un compito arduo, che si costruisce giorno dopo giorno, nella consapevolezza – da parte di ciascuno Stato membro – che occorre saper guardare lontano, rinunciando a qualcosa, quando necessario, affinché si possa comporre un coerente quadro di politica estera dell’Unione.

Sono passati dodici anni dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Ma il mondo e l’Europa da allora sono radicalmente cambiati.

Una ulteriore evoluzione della nostra Unione appare oggi ineludibile.

Lo ha indicato con puntualità il presidente Macron nel suo importante intervento in questa Università, il 26 settembre del 2017, parlando di una Europa “sovrana, unita, democratica”.

Francia e Italia devono essere fra i protagonisti di questa trasformazione.

Lo abbiamo già fatto lavorando fianco a fianco per costruire la risposta economica e sociale alla pandemia, affinché nessuno rimanga indietro e tutti possano avere nuove opportunità.

Lo stiamo facendo anche attraverso la predisposizione di un “Trattato bilaterale sulla cooperazione rafforzata” che consentirà di porre le nostre relazioni su un piano di ancor più profonda integrazione, capace di infondere nel progetto europeo nuova energia.

Gli innumerevoli vincoli che da sempre stringono insieme le nostre società civili ci saranno di aiuto prezioso.

In questa sede non possiamo non ricordare l’eccellente collaborazione esistente a tutti i livelli fra le nostre Università e le nostre Istituzioni di ricerca e i molteplici programmi congiunti che in ogni ambito si situano al limite estremo delle attuali conoscenze. Collaborazioni che, specialmente nella scienza e nella tecnologia, rappresentano motore di sviluppo e – non a caso – stanno alla base dei grandi progetti di interesse comune sostenuti dall’Unione.

Signora Ministro,

Signor Rettore,

Signori Presidenti,

il nostro impegno deve essere quello di continuare a lavorare insieme, con determinazione, affinché nel nostro futuro vi sia un’Unione non soltanto più stretta, ma in sintonia con i suoi cittadini, con le loro sensibilità, con le loro necessità, con i loro sogni.

La Conferenza sul Futuro dell’Europa che si è aperta da pochi giorni – e che auspichiamo possa concludersi con successo nel semestre di Presidenza francese – rappresenta il banco di prova della nostra capacità di saper prestare ascolto alle istanze delle nostre società e identificare così soluzioni al tempo stesso condivise e innovative.

Se un’Unione più efficiente e più coesa, più rappresentativa dei suoi cittadini, più autorevole al livello internazionale necessita – come è evidente – di cambiamenti nella sua struttura, dobbiamo avere il coraggio di affrontare e sciogliere questi nodi.

Insieme!

Francia e Italia sono chiamate – anche in questa fase – a esprimere forza propulsiva, a beneficio di tutti, per contribuire a far compiere all’Unione una tappa ulteriore verso la piena sovranità europea.

È un compito nel segno della coerenza, con la lungimiranza dei Padri fondatori.

Lo dobbiamo anzitutto ai popoli europei e, tra essi, soprattutto ai giovani europei, alla generazione Erasmus, a cui abbiamo il dovere di consegnare un’Europa forte dei nostri comuni ideali.

Merci de votre attention.

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