Ambiente senza Frontiere: Cambiamenti climatici e conflitti – La retromarcia di Donald Trump sul clima

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Dopo l’accordo di Parigi del dicembre 2015 (Cop 21) sui cambiamenti climatici, i responsabili politici della Terra si danno appuntamento ogni anno per definire le misure e gli impegni concreti che ogni Paese dovrà adottare per raggiungere gli obiettivi sottoscritti. Si sono riuniti a Marrakech (Cop 22) nel novembre 2016 e si riuniranno ancora a Bonn (Cop 23) nel prossimo novembre 2017.

Questa rubrica ha come obiettivo di mettere in evidenza i problemi più significativi creati dal surriscaldamento globale. Un primo problema, analizzato lo scorso anno dalla Banca Mondiale in occasione della Cop 22, riguarda l’impatto economico delle catastrofi naturali sulle popolazioni più povere del pianeta.

 

Cambiamenti climatici e conflitti

La retromarcia di Donald Trump sul clima

Gli effetti dei cambiamenti climatici, ormai si sa, sono molteplici e fanno prevedere un futuro carico di sconvolgimenti per il nostro Pianeta se non si adottano con urgenza le misure adeguate per ridurre il surriscaldamento globale.

Fra le tante previsioni che gli esperti sottopongono all’attenzione dei poteri politici, ve ne è una che incomincia solo da poco ad essere presa seriamente in considerazione ed è il nesso fra cambiamenti climatici, difesa, pace e sicurezza. Il segnale di questa nuova attenzione è stato dato, in particolare, dall’organizzazione, a margine della Cop 22 di Marrakech dell’ottobre scorso, della seconda conferenza internazionale intitolata “Difesa e cambiamenti climatici” che ha riunito i Ministri della Difesa di una trentina di Paesi. L’obiettivo era di approfondire tale nesso, di identificare e definire il ruolo che gli eserciti saranno chiamati a svolgere su nuovi campi di intervento e di creare le basi per una cooperazione militare internazionale al riguardo.

Benché una tale attenzione sia presente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna almeno a partire dagli anni ’80, è solo in questi ultimi anni che i Ministeri della Difesa di alcuni Paesi hanno deciso di incontrarsi e di considerare i cambiamenti climatici come un rischio strategico in termini di sicurezza nazionale e internazionale, in grado di scatenare conflitti non solo interni, ma anche fra Stati. Anche l’Assembla parlamentare della NATO ha adottato, nell’ottobre 2015, una risoluzione al riguardo in cui considera i cambiamenti climatici “importanti moltiplicatori di minacce per la sicurezza internazionale (…) attraverso l’ aumento delle catastrofi naturali, delle tensioni sulla sicurezza economica, alimentare e idrica, dei rischi per la salute pubblica, delle migrazioni interne e internazionali e della concorrenza per l’accesso alle risorse.”

Il GIEC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) delle Nazioni Unite suona da molto tempo il campanello d’allarme sui rischi per la pace e la sicurezza. In un rapporto del marzo 2014 precisa che i cambiamenti climatici aumenteranno i rischi di conflitti violenti: siccità, tempeste e inondazioni avranno un impatto durevole sulle società più a rischio di instabilità. In America Latina, ad esempio, esiste un rischio reale e elevato di disponibilità d’acqua nelle regioni semi-aride o dipendenti dall’acqua dei ghiacciai, con la conseguenza di una diminuzione della produzione e della qualità degli alimenti. In Africa, la frequenza dei periodi di siccità è destinata ad aumentare, moltiplicando indirettamente, a causa delle difficoltà di accesso al cibo, i rischi di conflitti violenti, come guerre civili o violenze interetniche.

Sono considerazioni che ribadiscono l’urgenza di azioni politiche ed economiche per contrastare i cambiamenti climatici se si vuole garantire un futuro di pace alla Terra. Studi, previsioni, gruppi di lavoro sono costantemente a disposizione dei responsabili governativi perché mettano tali temi in cima alle loro agende.

Purtroppo, al riguardo, ci giungono notizie non certo incoraggianti dagli Stati Uniti: il Presidente Donald Trump, che non ha mai dimostrato particolare sensibilità ai temi ambientali, ha annullato la decisione di Barack Obama, presa lo scorso novembre, e ha dato il suo consenso per far ripartire la costruzione di due oleodotti, il Keystone XL e il Dakota Access. Il primo è destinato a trasportare petrolio dalle sabbie bituminose del Canada verso il terminale del Nebraska e il secondo a collegare all’Illinois i giacimenti di petrolio di scisto del Dakota. Sono due progetti che da anni mobilitano gli ambientalisti i quali giudicano i due progetti un simbolo dal riscaldamento climatico dall’altissimo costo ambientale ed umano (il Dakota Access attraverserà infatti la riserva sacra dei Sioux). Sono anche il simbolo del ritorno in primo piano della scelta politica dei fossili, una politica che va nettamente contromano rispetto alle ambizioni dichiarate dagli Stati Uniti a Parigi nel 2015 di diventare Paese leader nella lotta al surriscaldamento globale.

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