Quale futuro di pace per Gaza e per tutti i Palestinesi

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E’ entrato sulla scena internazionale, con il solito sfrenato, euforico e inopportuno ottimismo del Presidente Trump, il Piano di pace in venti punti che dovrebbe mettere fine alla guerra a Gaza. Presentato a Washington a fianco del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il Piano si rivela subito come un vero e proprio ultimatum ad Hamas, chiamato ad accettarlo nel giro di pochi giorni, pena lo scatenamento “di un inferno”. Non solo, ma una risposta negativa legittimerà Israele a continuare fino in fondo “il lavoro intrapreso”.

Accettato a mezza voce da Netanyahu e sostenuto, secondo le percezioni sempre più ottimistiche di Trump, dai paesi arabo musulmani (Egitto, Giordania, Qatar, Arabia saudita, Emirati arabi, Turchia, Pakistan, Indonesia), il Piano non coinvolge minimamente gli stessi interessati, e cioè il popolo palestinese. Un aspetto che non incoraggia a sperare in un possibile processo di pace al di là della fine del terribile conflitto in corso.

Si tratta in sostanza di un Piano disegnato a grandi linee,  senza un calendario preciso, che prevede in particolare, come primo obiettivo, la consegna di tutti gli ostaggi israeliani rapiti da Hamas durante lo sciagurato attacco terroristico di due anni fa, “vivi e morti”,  in cambio  del rilascio di circa due mila prigionieri palestinesi detenuti da Israele. 

Tale scambio dovrebbe permettere di fermare i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza e di concordare un cessate il fuoco, punto che Hamas avrebbe già provvisoriamente accettato, lasciando gli altri punti sul tavolo di negoziati in corso in Egitto. Un’operazione di per sé non da poco e carica di incognite sia sul rispetto degli impegni presi dalle due parti in conflitto, sia sul proseguimento dell’implementazione del piano americano nelle sue successive fasi. 

Sul tavolo dei negoziati in Egitto, fra Hamas, Israele e Stati Uniti, vi sono infatti i punti previsti in una seconda fase, intesa come processo che andrebbe dal cessate il fuoco ad una ipotetica pace. I punti principali vertono sul disarmo e la resa di Hamas, sul ritiro, a tappe da definire, dell’esercito israeliano da Gaza e con l’impegno a non occupare militarmente né annettere Gaza, sulla ricostruzione della Striscia e l’istituzione, sotto  tutela internazionale, di un Consiglio per la pace, presieduto dallo stesso Trump, guidato da Tony Blair (ex primo ministro inglese) e da altri leader politici di Paesi arabi e musulmani. 

Tutto questo futuro della Palestina e dell’intera regione Mediorientale si trova oggi sul tavolo dei  negoziati in Egitto. In discussione un futuro delineato a Washington che non concede né spazio, né parola ai Palestinesi e al loro diritto all’autodeterminazione, al futuro di una relazione dialogante e rispettosa per la convivenza di due Popoli e che spegne quasi tutte le speranze per la costituzione di uno Stato palestinese. A rafforzare questa constatazione è anche la mancanza, nel piano di Trump, di un riferimento al futuro politico dell’Autorità Nazionale Palestinese e della Cisgiordania, sempre più occupata dai coloni israeliani.

Una prospettiva a due Stati che né gli Stati Uniti e tanto meno Israele prendono in considerazione. Netanyahu l’ha ribadito alla recente Assemblea generale dell’ONU e Trump, con un gesto inequivocabile, ha revocato il visto per gli Stati Uniti alle autorità palestinesi in vista dell’Assemblea ONU. 

In queste condizioni è difficile, se non impossibile, immaginare un  futuro di pace. Oggi la posta in gioco è innanzitutto far tacere le armi, anche se i bombardamenti su Gaza continuano e le Istituzioni internazionali sono ormai ridotte al silenzio.  Ma è anche il momento di non abbandonare il popolo palestinese e continuare, sullo slancio dell’impegno di una società civile sempre più sensibile al dramma che si consuma in Medio Oriente, a chiedere un vero futuro di pace e di giustizia. Per la Palestina, e per Israele.

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