Davvero, con tutti i problemi che agitano il mondo, c’era bisogno che 27 Capi di Stato e di governo, più i Vertici delle Istituzioni UE, dopo il tempo perso a G7 in Canada salvo concedere l’esenzione dalla “global minimum tax” sui profitti delle multinazionali USA, e dopo gli inchini a Trump al Vertice della NATO all’Aja, prolungassero per altre due giornate i loro confronti senza giungere a una decisione che sia una?
Tutto questo lo potevano evitare per almeno due buone ragioni, una più antica e una più recente.
Quella più antica, la racconta l’ormai sperimentata curva discendente del ruolo esercitato dal Consiglio europeo, massima Istituzione politica dell’Unione creata nel 1974 e diventata un’Istituzione UE nel 2009 con il Trattato di Lisbona.
Nato come organo che definisce le priorità e gli orientamenti politici dell’Unione è progressivamente diventato il teatrino delle recite intergovernative, più luogo di divisioni tra i governi dei Paesi membri che occasione per stimolare il processo di integrazione politica comunitaria.
Se ne vedono puntualmente i risultati: poche o nessuna decisione condivisa e, per salvare le apparenze, conclusioni vaghe, accompagnate da rinvii alla riunione successiva.
Come è stato nel caso della settimana scorsa, e non è il solo, il rinvio a luglio sull’attesa decisione di sospendere l’Accordo di associazione commerciale con Israele, nonostante il parere favorevole dei servizi giuridici delle Istituzioni UE. Se c’era un tema urgente dopo l’accanimento dello sterminio in corso a Gaza, uno era proprio questo. Era orientata in questo senso una maggioranza di 19 Paesi UE, Spagna in testa, ma la cosa non piaceva a due Paesi “pesanti”: la Germania, ancora prigioniera del suo passato, e l’Italia per il cui governo non muove foglia che Trump non voglia.
Ma vi è anche una ragione più recente per considerare superfluo l’ultimo Consiglio europeo: semplicemente perché dopo essersi inchinati di buon grado al diktat di Trump al Vertice dell’Aja, sull’aumento della spesa militare fino al 5% del Pil entro il 2035, c’era più poco da discutere, salvo dividersi su come trovare tutti quei soldi in bilanci nazionali esausti, salvo per la Germania, perché sulla disponibilità di risorse europee la nebbia resta fitta.
Naturalmente per l’Ucraina non sono mancate le promesse e un documento di conclusioni a parte, vista la mancata unanimità tra i 27; per l’Iran non si è andati oltre l’invito a raffreddare il conflitto scatenato da Israele con la complicità degli Stati Uniti. Sul conto di Israele era inevitabile segnalare le situazioni deprecabili a Gaza, in Cisgiordania e non manca un accenno alla Siria e incoraggiamenti ai Balcani perché si preparino ad entrare nell’Unione.
Manca invece un riferimento al “problemino’ dei dazi, mentre incombe la minaccia americana della scadenza del 9 luglio, “forse anche prima o forse anche dopo”, perché tutto dipende dal buon cuore di quel mercante in fiera di Trump, a seconda dell’umore del momento: a Bruxelles non resta che aspettare la sentenza finale.
In fondo è l’amara constatazione che l’importante si decide oltre Atlantico, l’Unione se ne farà una ragione: sembra questo l’orientamento del Cancelliere Merz che ha fretta di chiudere anche cedendo al ricatto, mentre è di parere diverso il presidente francese Macron. Quanto al presidente del Consiglio italiano non si capisce bene, salvo che sembra andare bene tutto quello che viene da oltre Atlantico, ma non è una novità. Sembra che stia più a cuore chiudere le frontiere ai migranti e su questo un paragrafo c’è nelle conclusioni del Consiglio, anche se non si capisce ancora bene come comporre misure più severe, rimpatri e detenzione in centri all’estero con il pur citato “diritto dell’Unione e diritto internazionale”.
Non che molti altri temi non siano sfiorati, moltiplicando le parole,anche perché conclusioni del Consiglio europeo che si rispettino non possono avere meno di 50 paragrafi, utili per capire lo stato confusionale in cui galleggia oggi l’Unione Europea.