Quando la violenza non fa più notizia 

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L’omicidio dell’attivista politico conservatore Charlie Kirk ha scosso il mondo intero a causa della sua brutalità. I canali d’informazione ed i social hanno subito riportato la notizia. All’apparenza si tratterebbe della normalità quando accade un evento così drammatico, ma è sconvolgente la modalità in cui è stato mostrato al mondo. Aprendo Instagram, Tiktok o X il 10 settembre si sarebbe potuto vedere senza censure e repostato in tutte le pagine il momento in cui Kirk viene colpito al collo dal proiettile che lo ha ucciso, probabilmente con il solo ed utilitaristico fine di guadagnare molti like nella speranza che il contenuto diventi virale ed ottenga migliaia di visualizzazioni. La superficialità con la quale un episodio cosi feroce sia stato condiviso è preoccupante e certifica come ormai la società percepisca in modo differente la violenza, quasi normalizzandola. E probabilmente ciò accade anche perché i metodi intimidatori e coercitivi sono sempre più utilizzati in politica. Guardando all’America, è inevitabile notare come a seguito dell’elezione di Trump la retorica della Casa Bianca sia diventata aggressiva, a tal punto che diversi giudici della Corte Suprema hanno condannato l’uso del linguaggio intimidatorio e le pratiche che ne derivano. Emblematico il caso del giudice federale John C. Coughenour che ha ricevuto numerose minacce dopo aver bloccato un ordine esecutivo presidenziale sulla cittadinanza dopo che gli esponenti del partito repubblicano hanno lanciato una violenta campagna mediatica contro i magistrati che hanno bloccato alcuni dei numerosissimi ordini esecutivi di Trump. Questo atteggiamento spinge poi i sostenitori più accaniti a ricorrere a gesti estremi: Kirk è la vittima più recente, ma nell‘aprile scorso un uomo è stato arrestato a Harrisburg, Pennsylvania, per aver tentato di appiccare un incendio nella casa del Democratico Josh Shapiro, governatore dello stato. Per non parlare della decisione del presidente americano di modificare il nome del dipartimento della Difesa in dipartimento della Guerra. 

È riemersa dalle pagine più buie della storia la percezione dell’opposizione come un nemico esistenziale che deve essere eliminato ad ogni costo. Sembra di ritornare alla concezione di politico data dal politologo Carl Schmitt, basata sulla distinzione tra amico-nemico, in cui quest’ultimo non è un avversario generico che può essere compreso od ascoltato, bensì un estraneo con cui non si può condividere nulla se non l’obiettivo di prevalere in qualsiasi modo sull’altro. La guerra, infatti, è tornata ad essere lo strumento per la risoluzione delle controversie a discapito della diplomazia e del diritto internazionale. Non a caso si contano attualmente 56 conflitti attivi nel mondo, il numero più alto dalla fine del secondo conflitto mondiale. Osservando il contesto internazionale è scontato citare la guerra in Ucraina oppure il genocidio che l’Israele sta commettendo a Gaza, finalmente riconosciuto come tale da una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite il 16 settembre. Simbolica (e terrificante) è stata la gigantesca dimostrazione di forza bruta messa in atto dalla Cina a inizio settembre, quando Xi Jinping, affiancato da Putin e Kim Jong-Un, ha solennemente guidato la parata militare più grande della storia del paese mostrando un arsenale quasi fantascientifico.  Nel maggio scorso a ruoli inversi si era tenuta a Mosca la parata del Giorno della Vittoria, in cui si ricorda il successo dell’URSS nella seconda guerra mondiale. Putin in questo caso era il leader mentre Xi l’ospite, ma il risultato è stato lo stesso, ossia quello di mostrare il proprio potere, soprattutto quello bellico.  

Nel saggio “Sulla violenza” Hannah Arendt scriveva: “La violenza può distruggere il potere; è totalmente incapace di crearlo”. Forse sarebbe giunto il momento di ricordarlo anche a chi ha in mano le redini del futuro del mondo.          

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