Europa: domande in attesa di risposta

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“Esiste dunque in Europa una concordia di bisogni, e di desideri, un comune pensiero, un’anima universale, che avvia le nazioni per sentieri conformi a una medesima meta – esiste una tendenza europea”: sono parole di Giuseppe Mazzini nel 1829 che, dopo varie evoluzioni concluderà, nel 1871, alla necessità di un “rimaneggiamento della Carta d’Europa”.
Da allora, 150 anni fa, di rimaneggiamenti l’Europa e il mondo ne hanno registrati molti, non sempre felici e perlopiù non in nome dei valori della fratellanza universale cara a Mazzini. Li hanno provocati le guerre e sanzionati fragili Trattati di pace, accompagnati dalla creazione di effimere istituzioni internazionali, come la Società delle Nazioni, estintasi di morte naturale, lasciando il posto nel 1946 all’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), cresciuta nel tempo in numero di Paesi associati, ma molto meno per l’efficacia delle sue deliberazioni.
In questa fragile dinamica di pacifiche aggregazioni tra Nazioni brilla un’eccezione: quella della Comunità europea nata all’alba degli anni ‘50 e diventata, come Unione Europea, una comunità oggi di mezzo miliardo di persone e con 19 Paesi dotati di una stessa moneta e importanti politiche comuni.
Vista l’esperienza tragica dell’Europa della prima metà del ‘900 e la permanenza anche nell’UE di oggi della centralità della nazione, forse anche Mazzini potrebbe esserne moderatamente contento, nonostante che poco sembri sopravvivere della celebrata “anima universale” e del “comune pensiero” dell’Europa
Non sembra invece contento un numero crescente di governanti europei – e quelli italiani tra questi – attirati dalla smania di distruggere quello che in settant’anni si è riuscito faticosamente a costruire, con il rischio di provocare nuove tensioni sul continente, in un momento di grande turbolenza mondiale.
Da chiedersi perché così tanta voglia di tornare indietro, agli anni bui dei nazionalismi che già nella Prima guerra mondiale avevano “suicidato” l’Europa.
Forse che possono questi staterelli della vecchia Europa resistere all’urto della competizione internazionale e delle spallate dei dazi che minacciano la nostra economia?
Forse che murando la società aperta europea saranno maggiori il benessere dei suoi cittadini, le speranze di futuro dei suoi giovani e la rigenerazione di un continente pericolosamente invecchiato?
Forse che impedendo la mobilità delle persone tra i nostri Paesi si svilupperanno più fecondi scambi culturali e si rialimenterà la vita intellettuale di un’Europa ripiegata su se stessa?
Forse che frontiere e muri ci proteggeranno dalla violenza che scorre da sempre nel sangue delle nazioni europee, pronte di nuovo ad affrontarsi, oggi con i divieti e domani con le armi?
O, forse, cavalcare l’onda della paura servirà solo a ingannare i cittadini, nascondendo la complessità dei nostri problemi per ottenere in cambio qualche voto in più alle prossime elezioni, non si sa bene per quale nuovo progetto di società?
Sono solo domande ma possono alimentare, in questa estate di meritato riposo, stimoli alla saggezza, oggi risorsa tanto indispensabile quanto rara.

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