Sessant’anni fa la Comunità economica europea

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Il Trattato firmato il 25 marzo 1957 in Campidoglio dava avvio a una Comunità europea che nei suoi sessant’anni di vita avrebbe conosciuto sorprendenti sviluppi, realizzato grandi conquiste, ma anche perso occasioni importanti per diventare l’Unione che i Padri fondatori sognavano.

Un sogno nato dai rapidi progressi della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), creata nel 1951 con il Trattato di Parigi, e frenato dall’affossamento ad opera della Francia, nel 1954, della Comunità europea della difesa (CED). Un sogno che avrebbe ripreso a vivere dopo la Conferenza di Messina, nel 1955, grazie al progetto di una meno ambiziosa Comunità economica europea (CEE), quella che senza troppo sbagliare la nostra gente chiamava più sbrigativamente “Mercato comune”. Per la verità era già qualcosa di più: tra le righe non rinunziava a una progressiva dinamica federale, testimoniata dall’affermazione delle quattro fondamentali libertà di circolazione: dei beni, dei capitali, dei servizi e delle persone.

Ci sarebbe voluto del tempo per realizzare quel progetto che si muoveva a velocità differenziate, con l’unione doganale realizzata nel 1968, in anticipo sulla scadenza prevista, ma con le quattro libertà che avanzavano lentamente, quella della libera circolazione delle persone in particolare. Il disegno di un mercato unico si realizzò nel 1992 e pose le basi per il balzo successivo, quello della moneta unica, ad oggi il più importante passo verso un’Europa federale. Vi aderiscono solo 19 Paesi UE e resta gravemente incompleto il suo impianto, privo com’è di una politica economica e di bilancio comune, con fiscalità convergenti e una “governance” condivisa.

Ritardi e occasioni mancate, come si sarebbe ripetuto nel corso degli anni. Fu un’occasione mancata nel 1979 il passaggio al voto a suffragio universale diretto del Parlamento europeo, che nelle ultime elezioni è stato indebolito da un astensionismo che ha superato la barra del 50%, in particolare nei Paesi che hanno aderito all’UE in questo inizio secolo.

In parte è stata un’occasione mancata anche la caduta del Muro di Berlino nel 1989, che sembrò mettere fine a quarant’anni di “guerra fredda”: si parlò allora di investire i “dividendi della pace” in dinamiche di sviluppo e di rafforzamento delle nostre democrazie. Non è esattamente quanto avvenuto nei trent’anni successivi che ci hanno consegnato un’Unione allargata ma poco coesa, con una crisi finanziaria e economica che non finisce di finire e fragili democrazie a rischio di nazional-populismo, incapaci di fondare sul valore originario della solidarietà la risposta agli importanti flussi migratori di questi ultimi anni.

Fu un’occasione mancata anche la sveglia data al mondo con l’attacco alle Torri gemelle a New York nel 2001: non ne trasse le dovute conclusioni l’ormai dimenticato Trattato di Nizza dello stesso anno né il tentativo, condannato dai referendum francese e olandese, di dotare l’Unione Europea di una Costituzione, anche se parte dei contenuti di quel progetto sarebbero poi stati ripresi nel Trattato di Lisbona entrato in vigore a fine del 2009: troppo tardi, quando ormai il mondo era cambiato e la crisi finanziaria ed economica stava esplodendo.

Non è andata molto meglio con la vicenda del grande allargamento del decennio scorso: l’UE ha accolto Paesi che non hanno ricambiato l’accoglienza ricevuta e che oggi rifiutano la loro solidarietà a profughi e migranti, salvo stupirsi che una possibile – ed auspicabile – Unione a più velocità possa non prenderli subito a bordo, pur non escludendo che questo possa avvenire in futuro.

A Roma, il 25 marzo prossimo, i Ventotto Capi di Stato e di governo avranno di che meditare. Sarebbe bene che non sprecassero un’altra occasione per mettere in salvo questa straordinaria avventura che è l’Unione Europea: lo merita la pazienza dei suoi cittadini e ne ha bisogno il mondo turbolento in cui viviamo.

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