La Turchia nell’occhio del ciclone

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Mai come nello scorso anno la Turchia è stata così fortemente colpita da  gravi turbolenze politiche interne e da atti terroristici a catena, gli ultimi dei quali hanno insanguinato la notte di Capodanno in una discoteca di Istanbul e il tribunale di Izmir.  Il numero delle vittime è impressionante: secondo alcune stime, negli ultimi due anni, sarebbero  circa 560 le persone uccise in circa quaranta attentati.

Sebbene l’attentato di Capodanno non sia stato il primo perpetrato dal sedicente Stato islamico in Turchia, è tuttavia il primo attentato che rivendica.  Si tratta di una nuova strategia di Daesh legata in particolare all’evoluzione della politica turca in Siria a partire dallo scorso autunno, evoluzione che ha messo fine all’ambiguità  perseguita da Ankara nei confronti dello stesso  Daesh e che ora si è tramutata in uno scontro aperto e totale fra le due parti.

In gioco fino allo scorso autunno infatti, la ricerca da parte di Daesh  di una certa complicità o neutralità della Turchia nei suoi confronti,  cosa che è venuta ovviamente a mancare con il concreto impegno militare in Siria e con l’impatto diretto che tale impegno ha sulle attività di Daesh  nella zona.

Ma la discesa in campo militare della Turchia, membro della NATO e della coalizione occidentale impegnata nella lotta al terrorismo, e ora anche a fianco della Russia, è densa di doppie motivazioni e contraddizioni che sembrano moltiplicare le sfide a cui deve rispondere il Presidente Erdogan .

Innanzitutto la decisione di un chiaro ed effettivo impegno militare turco aveva ed ha un duplice obiettivo e cioè, da una parte, quello di cacciare Daesh dalle sue immediate frontiere, e dall’altra, forse l’obiettivo più importante, quello di impedire ai curdi siriani, in prima linea nella lotta contro lo Stato Islamico, di avanzare lungo e a ridosso dei confini con la Turchia e conquistare una continuità territoriale giudicata da Ankara estremamente pericolosa per l’unità nazionale turca. Erdogan infatti considera i curdi siriani come fratelli in armi del PKK, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, definito  come “organizzazione terroristica” da Ankara.  Ed è all’incrocio di questi due obiettivi,  visibilmente in discordanza fra loro, che si consumano gli attacchi di cui oggi  è vittima la Turchia.

Tuttavia, per la Turchia,  l’impegno militare assunto non è facile da perseguire, soprattutto dopo il tentativo di colpo di stato effettuato nel luglio scorso da una parte dei militari turchi. La risposta di Erdogan è stata di una rara durezza in termini di repressione, non solo nei confronti dei militari e delle forze di sicurezza, ma anche nei confronti delle varie componenti della società civile; dichiarazione dello stato d’emergenza, inasprimento delle leggi contro il terrorismo, repressione dell’opposizione, bavagli alla stampa, licenziamenti in massa di funzionari, di magistrati e di poliziotti sono tuttora all’ordine del giorno, creando una pericolosa fragilità politica interna, un allontanamento dalla democrazia ma anche un’incertezza sul consolidamento della dittatura che Erdogan vorrebbe istituire nel suo Paese.

Sul terreno di guerra, la fragilità militare della Turchia si è inoltre consumata alla luce delle scelte fatte: un abbandono degli storici alleati dell’opposizione sunnita ad Aleppo e l’alleanza con i Russi e con l’esercito di Bachar al Assad  per combatterli e cacciarli dalla città. In cambio l’appoggio militare e il consenso russo di conquistare la città di Al-Bab, a nord di Aleppo, città strategica agli occhi di Erdogan per fermare le milizie curde. Una situazione che solleva legittimi interrogativi se si pensa che la Turchia è al centro della geopolitica mediterranea, membro della NATO e ora anche alleata della Russia.

Ed infine, con la caduta di Aleppo, il cessate il fuoco in Siria e l’accordo tra Russia, Iran, Turchia, Siria e i ribelli su un futuro processo di pace potrebbe essere stato raggiunto sulla base di una precisa condizione imposta da Erdogan stesso: impedire con tutti i mezzi possibili la creazione di uno Stato curdo. Un prezzo altissimo che i curdi, ancora una volta nella loro lunga storia, dovranno probabilmente pagare, con  tutte le conseguenze immaginabili per la tenuta di una futura ed ipotetica pace nella regione.

Negoziati di pace saranno infatti organizzati dalla Russia nei prossimi giorni ad Astana, ma al tavolo delle discussioni non solo mancheranno i curdi, ma saranno assenti  anche altri attori internazionali nella regione, fra cui gli Stati Uniti e l’Europa.  Segno di grandi cambiamenti in corso nella definizione di nuove alleanze e protagonismi in Medio oriente, al centro dei quali si trova una Turchia in preda ad una profonda insicurezza e fragilità.

 

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