I fronti aperti della Turchia

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Si fanno sempre più numerosi i fronti di dissenso che la Turchia sta aprendo sia a livello di politica interna sia sullo scacchiere internazionale.

Sul versante interno, ad un anno esatto dal tentato colpo di stato del luglio 2016, molti sono gli inquietanti scenari che si sono via via disegnati con la forte repressione messa in atto dalla deriva autoritaria del Presidente Erdogan: stato di emergenza tuttora in vigore, licenziamenti di massa nella funzione pubblica, arresti di magistrati, insegnanti, intellettuali e parlamentari dell’opposizione e chiusura dei giornali critici con il governo. In questa situazione, il 16 aprile scorso, il Presidente ha inoltre vinto, anche se di poco, un referendum costituzionale che, in sostanza, consegna nelle sue mani il potere esecutivo e riduce notevolmente il ruolo del Parlamento.

Di fronte a queste gravi minacce alla democrazia, allo stato di diritto e alle libertà fondamentali, si è risvegliato un movimento di opposizione che non si era più visto dall’inizio degli anni novanta con le manifestazioni dei minatori, scesi in piazza per reclamare i loro diritti. In questi giorni si è infatti conclusa una lunga e difficile marcia da Ankara a Istanbul, composta da migliaia di persone, decise a difendere la democrazia, la giustizia e la libertà d’espressione. Un segnale certamente inviato al Presidente, ma anche all’Europa affinché sappia della pericolosa situazione in cui rischia di cadere il Paese.

Una tale situazione ha portato la Turchia su fronti di dissenso anche in politica estera. E’ di questi giorni, infatti, la crisi diplomatica con la Germania, innescata dall’arresto di attivisti tedeschi dei diritti umani. La Germania, benché legata alla Turchia da evidenti interessi, non ultimo l’accordo siglato l’anno scorso con l’Unione Europea sui migranti, ha deciso di rivedere la sua politica estera nei confronti della Turchia e ha invitato imprese e cittadini tedeschi ad evitare investimenti e turismo nel Paese.

Un altro fronte di dissenso è quello direttamente legato all’Unione Europea. E’ del 6 luglio scorso la richiesta formale del Parlamento europeo di congelare i negoziati di adesione della Turchia, una richiesta basata appunto sulle derive autoritarie del Presidente e sul timore che le riforme costituzionali previste, oltre alle minacce allo stato di diritto e alla libertà di stampa, portino direttamente al ripristino della pena di morte. La reazione di Ankara al riguardo è stata di rifiuto di una tale prospettiva, anche se tali negoziati, fermi e ormai impraticabili, servivano più che altro a conferirle una legittimità a livello internazionale.

Ed infine, proprio in questi giorni, la Turchia sta vivendo, sullo scenario mediorientale, una crisi diplomatica e militare anche con gli Stati Uniti. In gioco, il sostegno di Washington ai curdi siriani, in prima linea nella lotta all’ISIS nella battaglia di Rakka. Ankara considera le milizie curde siriane alla stregua del PKK, il partito dei lavoratori del Kurdistan in Turchia, con il quale è in aperto conflitto da anni a questa parte.

Situazione difficile e inquietante quindi in Turchia, Paese membro della NATO e Paese di importanza strategica nella soluzione dei vari conflitti che attraversano tutto il Medio Oriente.

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