Cooperare alla sicurezza dell’UE

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Ci sono voluti oltre sessant’anni di attesa, dopo la rinuncia nel 1954 alla creazione della Comunità europea della difesa (CED), per riprendere l’iniziativa nell’UE in vista di una cooperazione rafforzata in materia di sicurezza e difesa comune.

Adesso finalmente un primo passo sembra fatto: ne saremo più sicuri fra un mese quando l’intesa raggiunta a Bruxelles tra i ministri di 23 Paesi UE (restano per ora alla finestra Gran Bretagna, Malta, Danimarca, Irlanda e Portogallo) dovrebbe essere formalizzata.
Molto diversi i contesti in cui presero forma l’iniziativa del 1954 e quella di oggi. Allora, a pochi anni dalla fine della guerra, sembrò prematuro il passo – quasi un balzo – che avrebbe potuto portare dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) a quella di una comunità politica alla quale veniva affidata una responsabilità propria delle sovranità nazionali quale la difesa. Non fu un caso che ad affondare il progetto sia stata la Francia, da sempre – e oggi ancora – gelosa della sua sovranità e, allora, ancora troppo segnata dalle ferite della guerra con la Germania, per condividere con questa un esercito comune.
A metà degli anni ’50, dopo un primo momento di scoramento, i Padri fondatori ripiegarono su un progetto a dominante mercantile e rilanciarono il processo d’integrazione europea con il Trattato di Roma del 1957, non privo di varchi verso uno sviluppo politico da realizzare passo a passo, cogliendo le opportunità offerte dalla cooperazione economica.
Molto diverso il contesto di oggi, in un’Unione Europea allargata, dotata per 19 Paesi di una moneta unica, con un’economia fortemente integrata e nuove politiche comuni e presto libera dal “freno tirato” della Gran Bretagna in materia di difesa, ma anche sotto la pressione del nuovo protagonismo russo e con pericolosi conflitti in corso ai suoi immediati confini, dall’Ucraina al Medioriente fino alle sponde del Mediterraneo e con frequenti irruzioni terroristiche al suo interno. Un quadro politico inquietante che, unito alle posizioni isolazioniste di Donald Trump tentato di ridurre i suoi impegni nell’Alleanza atlantica (NATO), ha spinto una grande maggioranza di Paesi UE a convergere verso una “Cooperazione permanente per la sicurezza” (PESCO), che potrebbe un giorno concretizzarsi in una futura Unione europea della difesa, dotata di un esercito comune.
Nel quadro dell’Europa “a diverse intensità”, annunciata a Roma in occasione dei 60 anni del Trattato di Roma nel marzo scorso, la nuova iniziativa UE risponde all’urgenza di protezione dell’Europa e dei suoi cittadini, da non delegare alla sola NATO, e all’esigenza di rilanciare il processo di integrazione europea.
Si comincerà con la messa in comune di progetti per ora nazionali, prevalentemente nel settore dell’industria degli armamenti, dell’addestramento delle truppe e di servizi di supporto a operazioni in zone di crisi in attesa di poter disporre, a partire dal 2020, di un budget di 5,5 miliardi di euro destinati a questa iniziativa e di giungere, nel decennio seguente, a un’Unione politica della difesa.
Come si vede una strada ancora lunga e tutta in salita. Non sarà facile comporre gli interessi divergenti dei Paesi coinvolti, in particolare di quelli ossessionati dal mito della sovranità, trovare le risorse necessarie, in parte ricavabili dalla riduzione dei costi dei sistemi di difesa nazionali, e rendere compatibili i tempi medio-lunghi dell’iniziativa con le urgenze che premono dentro e fuori dei nostri confini. Né può sfuggire che andranno sciolti due nodi di fondo: l’avvio di una politica estera comune, senza la quale non può esistere una politica comune della difesa, e una “dottrina europea” della difesa che non contraddica i principi fondamentali dell’UE in favore della pace, quelli che ne hanno motivato il Nobel ricevuto nel 2012 e che l’UE deve continuare a meritare.

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