Libia: guerra si, guerra no

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È da molti mesi a questa parte che in Occidente si discute di un nuovo intervento militare in Libia, dopo quello effettuato nel 2011 che portò alla caduta del Governo e del Colonnello Gheddafi. Sono trascorsi cinque anni da quella caduta e la situazione del Paese continua a precipitare in un caos politico e istituzionale sempre più complesso e insanabile, fatto di divisioni tribali e geografiche che frenano la concretizzazione e l’avvio del Governo di unità nazionale e dimostrando poca sensibilità per le grandi sfide che il Paese rappresenta e deve affrontare.

La prima sfida per la Libia riguarda effettivamente la costituzione di un Governo di unità nazionale basato sull’accordo firmato a Skhierat in Marocco lo scorso 17 dicembre, fra il Governo di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale, e quello di Tripoli, creato da una coalizione di forze islamiche. Un Governo nato da una lunghissima e complessa trattativa durata più di sedici mesi e sostenuta dagli inviati speciali dell’ONU, Bernardino Leon prima e Martin Kobler oggi. La sua composizione è stata calcolata, con infinite difficoltà, sul peso demografico e politico militare delle tre regioni amministrative della Libia le quali, per evitare sensibili riferimenti storici sono state denominate Occidentale, Orientale e Meridionale (rispettivamente Tripolitania, Cirenaica e Fezzan). Ma il punto cruciale per la legittimità di questo Governo e affinché possa rappresentare un interlocutore ufficiale, è la fiducia che il Parlamento di Tobruk è chiamato a esprimere al riguardo, fiducia che finora non è stata accordata e nuovamente rimandata ai prossimi giorni o settimane.

La costituzione di un Governo riveste un aspetto estremamene sensibile e importante sotto vari aspetti. Al di là infatti della necessità per il Paese di ricomporre lontane o recenti fratture e di costruire uno Stato unitario, è di strategica importanza anche per quei Paesi che fanno parte della coalizione che combatte il terrorismo del sedicente Stato islamico (Daesh) e che vorrebbero intervenire anche in Libia. Daesh infatti, dopo le recenti perdite subite in Iraq, è entrato pericolosamente anche in Libia, si avvicina sempre più a Tripoli ed è deciso a occupare quegli spazi politici, economici e sociali lasciati liberi dalla mancanza di Istituzioni. Questa situazione sta diventando sempre più pericolosa per l’insieme della regione. In proposito, va sottolineata la centralità della Libia per lo sviluppo di Daesh anche nei Paesi limitrofi e fino al cuore dell’Africa, nonché la pericolosità del suo avvicinamento ai pozzi e ai porti petroliferi libici ; il ruolo che la Libia, se governata, potrebbe giocare nella gestione dei flussi migratori verso l’Europa e nel contrasto all’attuale traffico di esseri umani ; la situazione della popolazione libica, presa tra i fuochi incrociati di varie milizie e di Daesh, vive una situazione drammatica e, in alcune zone, ai limiti dell’emergenza umanitaria.

Ed è in questo contesto ad altissima tensione che continuano a farsi sentire le voci di un probabile intervento militare della NATO in Libia e dell’apertura di un terzo fronte di guerra, voci corse nuovamente in occasione della riunione a Roma del 2 Febbraio scorso di tutti i Paesi parte della coalizione anti-ISIS guidata dagli Stati Uniti. Nell’attesa della formale richiesta del futuro Governo di unità nazionale, l’Italia si sta preparando, in prima fila, a guidare le operazioni militari. Sorgono inevitabilmente gravi quesiti al riguardo: quali strategie politiche l’Italia e i Paesi che interverranno (o che stanno già intervenendo) prevedono di adottare per la Libia dopo l’intervento militare? Ma soprattutto con quale legittimità l’Italia può condurre un’ennesima guerra in Libia, soprattutto dopo lo sciagurato intervento del 2011, in gran parte responsabile del caos e della situazione attuale? Al momento non ci sono risposte al riguardo.

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