Partenariato Transatlantico

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Ha una sigla che suona male, come finora sono andati piuttosto male i negoziati che lo riguardano. Si chiama “Ttip” (Transatlantic Trade and Investment Partnership) che, tradotto alla lettera dall’inglese, significa: “Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti” e ha ormai fama di un accordo semi-clandestino, negoziato fino a poco tempo fa quasi segretamente tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America, in vista della creazione di una zona di libero scambio transatlantica.

Si tratta di un negoziato avviato in sordina, con tutte le cautele del caso, vista la sensibilità dei temi su – o, meglio, sotto – il tappeto e a più riprese portato alla luce da quanti vi si oppongono e non sono pochi. Nelle intenzioni dei suoi promotori sulle due sponde dell’Atlantico si sarebbe dovuto concludere entro il 2014, al termine del semestre di Presidenza italiana dell’UE: scadenza rinviata alla fine del 2015 (come vorrebbe la Commissione europea e i Governi, con la Germania in testa) se tutto filasse liscio, più probabilmente per il 2016. Le reazioni suscitate dal progetto di Trattato in questi ultimi tempi, e il loro intensificarsi e allargarsi, dissuadono dallo scommettere su una conclusione positiva entro i tempi previsti e con la “confidenzialità” auspicata, adesso che finalmente è stato tolto il segreto sul mandato negoziale.

L’iniziativa nasce nel contesto della mondializzazione dell’economia, della crisi che ha colpito duramente l’Occidente e dei nuovi equilibri geopolitici mondiali che si vanno profilando con il ruolo crescente dei Paesi emergenti, il ritorno, a tratti minaccioso, della Russia sulla scena mondiale. Per riassumere: un accordo tra due importanti aree economiche in perdita di velocità, come gli USA e soprattutto l’UE, mentre si allungano le ombre della Cina (si veda la recente creazione Banca cinese per le infrastrutture), e della Russia nella competizione non solo economica ma ancor più politica, se non addirittura militare.

USA e UE hanno cercato di vendere l’accordo come una naturale progressione nella liberalizzazione mondiale degli scambi, anche a contrasto di possibili conflitti che, in questo mondo ad alta instabilità, potrebbero pericolosamente degenerare. Forse anche per questa ragione gli USA hanno aperto un dialogo simile con l’area del Pacifico, escludendonela Cina. Nonstupisce che tra le motivazioni principali in favore del negoziato siano state invocate quelle della crisi e della mancata crescita, che l’accordo potrebbe invece rilanciare, insieme con l’occupazione, grazie ad una dilatazione del mercato, alle sinergie che ne deriverebbero per un’economia di grande scala.

Gli obiettivi potrebbero essere almeno in parte condivisibili, se non fosse per l’opacità del negoziato e per la non chiarezza dei costi sociali e ambientali dell’operazione. L’opacità delle trattative in corso non è di conforto per una democrazia già fragile e bisognosa di maggiore trasparenza: l’allarme in proposito è stato lanciato da molti soggetti della società civile internazionale, europea e americana, e raccolto dal Parlamento europeo, anch’esso a lungo tenuto all’oscuro del negoziato in corso e la cui conclusione non potrà prescindere dall’approvazione parlamentare, a Strasburgo, almeno non imbavagliata da voti di fiducia “all’italiana”. Anche la nuova Commissione europea di Juncker – e, sul tema, della Mogherini – sembra finalmente in allerta, più di quanto non lo sia stata quella, più accondiscendente, presieduta da Barroso.

Sui costi dell’operazione e quindi sul merito dei contenuti del partenariato molte sono state le voci che si sono levate per denunciarne i rischi, per la salute, per le imprese di piccole dimensioni in competizione sfavorevole con le grandi multinazionali, per le tutele dei lavoratori, per la libera circolazione e via seguitando. Tra le prese di posizione recenti, da segnalare quella dell’Episcopato europeo che il 13 novembre scorso ha concluso una sua Assemblea sul tema, stimando che “al di là delle questioni strettamente commerciali che solleva, il Ttip interroga la nostra identità europea” ela Chiesa“deve far sentire la voce dei più deboli e dei più poveri in Europa e nel mondo, nella misura in cui saranno interessati dall’accordo sul libero scambio”. Sono considerazioni e interrogativi gravi sui quali riflettere, tenendo gli occhi bene aperti su un accordo finora troppo occultato.

 

1 COMMENTO

  1. Ecco un argomento che andrebbe messo, squinternato, sul tavolo per tutti! Perché non si sa che cosa ci sia dentro a sto “Ttip”. I contenuti sono proprio segretati: nessuno ne parla. Almeno io non il trovo.
    Il prof. Chittolina potrebbe dedicare un po’ di spazio-tempo a questa faccenda. Anche perché i quotidiani NON ne parlano.
    Se poi il prof. volesse uno spazio per una conferenza sull'”Ttip” potremmo provare noi dello “Sportello Lavoro” “Reba” a trovare la sala per parlare.

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