Fisco a geometria variabile in Europa

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Si è molto parlato di evasione ed elusione fiscale nell’Unione Europea – e nel resto del mondo – in questi ultimi giorni. Finalmente, verrebbe da dire: era ora che, dopo aver tanto enfatizzato la realizzazione del mercato unico, la svolta dell’euro, si puntassero i riflettori su quell’inaccettabile “buco nero” che è il fisco in Europa.

L’occasione è stata offerta da un’inchiesta giornalistica internazionale che ha acceso i riflettori sui comportamenti fiscali di un Paese UE, il Lussemburgo, a lungo governato dall’attuale Presidente della Commissione europea, Jean – Claude Juncker, da pochi giorni alla guida proprio dell’Istituzione UE chiamata a promuovere il processo d’integrazione comunitaria, sanzionare gli aiuti di Stato che alterano la concorrenza interna e vigilare sul rispetto dei Trattati e delle normative che ne sono derivate.

L’inchiesta giornalistica ha presentato i suoi risultati come uno “scoop” che tale non è, svelando cose sapute e risapute da sempre, aggiungendovi solo il “pepe” di una lista di grandi aziende che dal benevolo fisco lussemburghese hanno ricavato enormi vantaggi, stimabili in migliaia di miliardi di euro: uno scandalo tollerato a lungo, ma intollerabile in questo periodo di crisi.

Della vicenda si sono subito impossessati la politica e, curiosamente, organi importanti della stampa finanziaria – guarda caso, prevalentemente anglo – sassone – da sempre paladina del libero movimento dei capitali, meglio se indirizzati verso le piazze della City londinese e di New York.

Delle accuse a Jean – Claude Juncker era normale se ne occupasse la politica che, per la prima volta, aveva tenuto direttamente a battesimo la nuova Presidenza della Commissione, all’indomani del voto popolare per il Parlamento europeo.

Senza ignorare le responsabilità passate di Juncker, l’imbarazzo del Partito popolare europeo, della Merkel che ne aveva sostenuto l’elezione, le perplessità dei socialisti europei coinvolti nelle “larghe intese” a sostegno di Juncker e le fondate critiche delle opposizioni in Parlamento a Strasburgo, la denuncia consente di far emergere un “iceberg” del quale stiamo intravedendo solo una delle punte visibili, non solo in Lussemburgo, ma anche in Austria, Olanda, Irlanda, Gran Bretagna, Cipro e, fuori, dall’UE in Svizzera, Liechtenstein e in molti altri paradisi fiscali.

L’interrogativo è semplice: può un’economia globale essere alla mercé di molteplici sistemi fiscali senza subire distorsioni e squilibri? Soprattutto, può una simile anarchia essere tollerata dentro l’Unione Europea e il suo preteso “mercato unico”? Non dovrebbe, ma è quello che avviene da sempre. Ne sono testimonianza i Trattati da dove la parola “fisco” è praticamente abolita, trattandosi di una materia non riconosciuta come comunitaria e sulla quale ogni eventuale decisione europea è sottoposta alla regola dell’unanimità. Cioè esposta ad un diritto di veto, esercitato dagli Stati nazionali in nome della loro presunta sovranità o di quella che ancora rimane. E la fiscalità è uno degli ultimi bastioni – insieme con la politica estera e della difesa – sui quali i governi nazionali (22 su 28) resistono da anni a una condivisione di regole per sfruttare ogni occasione di possibili vantaggi finanziari ed economici.

Oltre al Lussemburgo, ne sa qualcosa l’Irlanda che non ha esitato a ridurre l’imposizione fiscale per attrarre investimenti sul proprio territorio o la Gran Bretagna che accoglie volentieri nella sua piazza finanziaria grandi multinazionali, come dimostra il caso della ex – FIAT, oggi FCA. Per non parlare di multinazionali d’oltre – oceano, come Amazon e Google e molte altre.

Dell’argomento, tra mille altri, si è parlato nel Vertice del G20 il week end scorso a Brisbane in Australia, dove erano presenti i responsabili politici del 90% dell’economia mondiale, per cercare regole comuni e progredire sulla strada della trasparenza fiscale.

Di ritorno a Bruxelles, sarà bene che Juncker se ne occupi subito con la Commissione europea, rilanciando la proposta di direttiva per la fiscalità delle società e per lo scambio automatico dei dati fiscali, come auspicato dal G20. Sarebbe un modo, anche se postumo, di ritrovare uno straccio di credibilità agli occhi di chi ancora spera nel futuro di un’Unione Europea giusta e solidale.

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