Turchia al voto

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Dopo la Francia, questo 30 marzo è stata anche giornata di elezioni municipali in Turchia. Se i risultati francesi hanno destato preoccupazione per la consistente vittoria del centro destra e dell’estrema destra e la debole partecipazione al voto, i risultati in Turchia hanno, dal canto loro, sorpreso per l’indiscussa riconferma del Partito Akp (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) del Premier Recep Tayyip Erdogan e per affluenza alle urne. Una vittoria che sfiora il 50% dei voti.

Apparentemente quindi, nessun voto sanzionatorio per il Primo Ministro e il suo Partito islamista, che vedevano in queste elezioni municipali un inevitabile test per il loro futuro politico, messo a dura prova in questi ultimi tempi da scandali e accuse di corruzione, da significative manifestazioni iniziate l’anno scorso al Gezi Park, dalle decisioni autoritarie di oscurare i social network, di limitare la libertà di stampa, di compromettere l’indipendenza della magistratura e di sospendere quei diritti garantiti fino a poco tempo fa da un impianto costituzionale laico. Perché è in questo contesto di decisa deriva autoritaria, unita ad un ritorno più segnato sulla scena politica di un conservatorismo islamico religioso, che si è svolto lo scrutinio amministrativo di domenica scorsa, un referendum pro o contro Erdogan, dove il contro si è frantumato in una opposizione in cui, il partito più consistente, il Partito del Popolo Repubblicano (CHP), si è fermato al 28%.

Le prime parole di Erdogan, dopo la vittoria e sulla stessa linea della sua provocante e difensiva campagna elettorale, sono state molto dure e punitive nei confronti dei suoi avversari politici, verso quei “nemici” che, a parer suo, hanno complottato per rovesciare il regime, sottolineando così un’inquietante concezione della democrazia e del futuro che l’attende nei mesi a venire.

La Turchia sembra quindi proseguire verso una divisione interna che può avverarsi pericolosa per la sua stabilità e per la posizione geostrategica che riveste tra Oriente e Occidente. Un’instabilità interna che ormai non si limita più ad un conflitto fra AKP e opposizione, ma si delinea anche geograficamente fra la parte più orientale del Paese, rurale, musulmana e feudo dell’AKP, e la parte occidentale più progressista  e con occhi puntati verso l’Europa. Una frattura inoltre di società, apparsa più chiaramente dopo le manifestazioni di Gezi Park, fatte in particolare dai giovani turchi e rientrate non attraverso il negoziato ma attraverso la forza. Ed infine una spaccatura anche all’interno delle Istituzioni stesse, consumatasi nel febbraio scorso con l’approvazione da parte del Parlamento della riforma della giustizia, che pone il sistema giudiziario sotto il controllo dell’esecutivo, sovvertendo così il principio della separazione dei poteri. Un aspetto quest’ultimo volto ad allontanare sempre più la Turchia dall’Europa, ormai assente anche nella campagna elettorale.

Ora Erdogan, al potere dal 2002, ha ricuperato con questo voto la legittimità e la forza di proseguire il suo cammino politico. All’orizzonte le elezioni presidenziali di agosto e le elezioni politiche nel 2015. Dalla sua parte, malgrado il discredito di una parte della popolazione, l’aver portato la Turchia ad uno sviluppo economico significativo e alla formazione di una consistente classe media. E forse questo ha contato di più che non il rispetto della democrazia, del dialogo e delle libertà fondamentali.

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